Ieri sono trascorsi cinque anni dal rapimento di padre Paolo Dall’Oglio, che il 29 luglio 2013 era andato a Raqqa – allora capitale dello Stato islamico – per chiedere la liberazione di alcuni amici attivisti. Sulla sua sorte, in questi 1830 giorni, sono circolate le voci più contraddittorie. Ora, nella Raqqa strappata allo Stato islamico lo scorso ottobre (a un prezzo elevatissimo per i civili), sarebbe doveroso approfondire le ricerche. Intanto, 161 famiglie siriane stanno provando un dolore nuovo: dopo quello dovuto all’incertezza sul destino dei loro cari scomparsi, quello causato dalla sopravvenuta certezza della loro morte.

Il governo siriano ha iniziato a distribuire certificati di decesso. Ovviamente, non c’è scritto che i 161 ex scomparsi sono morti sotto tortura. Tutte queste persone erano state arrestate dai vari servizi di sicurezza già nelle prime manifestazioni del 2011. Come Islam Dabbas, studente e attivista di Daraya, arrestato il 22 luglio di quell’anno. O come i fratelli Yehya e Maen Shurbaji, visti per l’ultima volta sempre a Daraya il 6 settembre. Secondo la Rete siriana per i diritti umani, i “desaparecidos” dal 2011 sono 82mila, cui vanno aggiunte le migliaia di rapiti e assassinati da parte dei vari gruppi armati anti-governativi. Come già denunciato nel 2015 da Amnesty International, sugli scomparsi si è creato un vero e proprio business.

L’umanità non appartiene né ai gruppi armati islamisti né al governo di Damasco. Ne abbiamo avuto prove ogni giorno degli ultimi sette anni. Ma è doveroso continuare a chiedere che i resti dei corpi di coloro di cui è stato attestato il decesso vengano restituiti alle famiglie. E che chi tra gli ex emiri e militanti dello Stato islamico ancora in vita sa qualcosa di padre Paolo faccia opera di trasparenza e verità, magari anche grazie a qualche pressione dei governi amici.

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