Il servizio pubblico è un servizio privato. I partiti hanno sempre utilizzato la televisione di Stato come macchina di propaganda, alloggio per i connessi, piattaforma espositiva delle amicizie influenti. L’informazione fa rima con manipolazione e tutto il mondo è paese. Il potere ha bisogno di indirizzare la comunicazione, orientare l’opinione pubblica, governare, assopire, o anche esaltare.
È storia di questi decenni di come la sinistra abbia gestito insieme alla destra, ed è cifra peculiare di questo Paese che abbia avuto al comando un tycoon dell’industria televisiva.
Queste elementari premesse dovevano consigliare assolutamente a Lega e Cinquestelle di cambiare registro e, almeno sul nome del presidente, ruolo di garanzia e non di governo, offrire al Parlamento la possibilità di scelta su una rosa minima ma degna.
Invece è successo che i Cinquestelle, incassata la nomina dell’amministratore delegato, l’uomo solo al comando, abbia lasciato alla Lega la facoltà di esercitare il diritto di proprietà sulla presidenza. Il nome che è stato imposto, quello di Marcello Foa, aveva unicamente questa funzione: spiegare bene chi comanda e non lasciare agli altri nemmeno la cortesia dell’offerta, solo l’obbligo dell’approvazione.
Il cambiamento ha la sua forza se è sostenuto da uno stile, da un modo di essere, da una pratica di governo. Se questo proposito è falsificato, resiste la vecchia pratica ad opera di volti nuovi.
Non c’era da scandalizzarsi sapendo chi è Salvini, un po’ più di stupore lo assicurano i grillini.
E ruba un sorriso di compassione la fregola con la quale Foa ha agguantato le chiavi della stanza presidenziale e la poltrona di pelle umana prima ancora che la commissione di Vigilanza concedesse il parere vincolante.
Il presidente non si è accorto di essersi trasformato in un Fantozzi in sedicesimo.
Prima lascia meglio è.