Per esordire su questo blog, propongo il testo che ho scritto  per i bimbi delle elementari di Santeramo (Bari), su richiesta di Anna Maria Colonna, che ha realizzato il progetto “Scrivo, ri-scrivo, pubblico”, dedicato al giornalismo e al recupero della lingua italiana.

Ciao bambini, mi chiamo Marco Brando e ho 60 anni. Sono nato a Genova e mi occupo di giornalismo a Milano da 36 anni. A voi sembrerà un’eternità, vero? Tranquilli, succedeva anche a me quando ero un ragazzino.

Perché abbiamo sensazioni diverse man mano che il tempo passa? Perché quello che ci succede attorno può essere differente, se si guarda con occhi e esperienze non simili. Per esempio, una volta ho raccontato la mia vita da giornalista agli studenti ventenni del corso di laurea in Comunicazione, Innovazione, Multimedialità (Cim) dell’Università di Pavia, dove ho studiato anch’io molti anni fa.

Ho raccontato dei miei primi articoli realizzati con la macchina da scrivere (per voi è un aggeggio antico). Poi li dettavo a donne e uomini che per lavoro facevano i dimafonisti: vuol dire che li chiamavo per telefono (non c’erano i telefonini, esistevano grossi telefoni fissi con una rotella) e loro registravano quello che dettavo. Riscrivevano tutto e davano il testo alla redazione, perché lo mettesse sul giornale, l’Unità.

Queste cose succedevano tra  il 1982 e 1985. Inoltre, ho raccontato a quei ragazzi del primo fax che ho usato: per voi è già roba vecchia ma allora era uno dei primi, grande come una lavastoviglie. In seguito, dopo il 1985, mi fu affidato il primo computer portatile, dotato di modem e di ventose per la cornetta del telefono: pigolava come un pulcino, mentre trasmetteva i miei articoli al computerone enorme che stava nelle cantine del mio giornale. Successivamente arrivarono i primi personal computer e i primi telefoni cellulari, che ho cominciato a usare nel 1992, ai tempi dell’inchiesta milanese “Mani Pulite”: il mio telefonino in realtà era un telefonone grosso come un mattone e pesava quasi altrettanto. Infine, poco più di vent’anni fa, è arrivato Internet: un’infinita piazza virtuale dove infinite voci dicono tutto e il contrario di tutto.

Ecco, i giornalisti da sempre vivono in una grande piazza: fino ad alcuni anni fa era solo di pietre e asfalto, oggi è anche è virtuale, nell’aria, grazie al Web. Che cosa significa fare oggi – nel XXI secolo, con le notizie che in pochi secondi arrivano da tutto il mondo – il giornalista? Tanto più che le piazze e il modo di comunicare sono cambiati molto: in meno di 200 anni – da quando esistono i giornalisti veri e propri – si è passati dai cavalli alle macchine a vapore, al telegrafo, all’elettricità, alla stampa moderna; poi sono arrivate le auto, poi gli aerei, i voli nello spazio, la radio e dopo la televisione; infine, tutte le tecnologie più moderne, fino a quelle così moderne che voi le conoscete meglio di me.

Ecco, voi ragazzi più piccoli, come quelli grandi, dovete sapere che scrivere una notizia giornalistica – cioè descrivere un fatto che è successo – non equivale a raccontare a un amico qualcosa. Quello semmai è solo il primo stimolo, comune a tutta la gente. Però voi sapete che qualsiasi fatto, anche un piccolo incidente stradale, viene raccontato in modo diverso da ciascuno di quelli che vi hanno assistito.

Un giornalista, sia quando succedono fatti piccoli sia quando succedono cose che interessano tutto il mondo, deve sempre essere capace di ascoltare tutte le voci e le versioni su quello che è successo. Un bravo  giornalista deve poi essere capace di confrontare e decifrare, di scovare i particolari anche più piccoli, quelli che magari i passanti non notano e invece sono importanti per capire. Deve saper guardare oltre. E deve saper raccontare in modo semplice, con poco tempo a disposizione, fatti e fattacci a prima vista complicati, senza farsi influenzare da coloro che vorrebbero imporre un punto di vista. Lo fa avvicinandosi il più possibile alla verità, che è difficile da raggiungere al 100 per cento.

Ecco, il bravo giornalista deve saper capire le differenze. E deve riuscirci anche quando va al cinema o legge un libro o guarda la tv o assiste a una discussione tra passeggeri su un treno o osserva la gente. Insomma, fare i giornalisti significa non stancarsi mai di essere curiosi e attenti; vuol dire considerare curiosità e attenzione un divertimento più che un lavoro.

Ho raccontato queste cose a quegli studenti universitari. Mi sentivo guardato come io guardavo, quando avevo vent’anni,  gli adulti o gli anziani che allora mi raccontavano le loro storie. Storie per me lontane come gli antichi romani, ma per loro recenti, come se fossero successe appena ieri o l’altro ieri: le rivolte dei giovani nel Sessantotto, la Resistenza, la guerra, il fascismo, un modo senza tv e senza Internet, con radio gracchianti fatte di legno e pochi telefoni.

Hanno sorriso, quei ventenni,quando ho detto che il mondo cambia in modo sempre più rapido; e quando ho aggiunto che loro in futuro diventeranno “antiquati” (cioè superati dai cambiamenti) molto più velocemente di quanto possa esserlo diventato io, che ho oltre mezzo secolo di vita alle spalle. Anche voi dovrete rinnovarvi e cambiare molto più in fretta di quanto hanno fatto i vostri genitori e i nonni. Ma pure per voi ci sono e ci saranno – se vorrete provare a fare i giornalisti – tante notizie, leggere e a volte insostenibili, da raccontare. Come e dove non lo so. Ma ci saranno.

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