Quest’anno, grazie a una primavera piovosa, l’Italia è stata finora risparmiata dagli incendi che hanno devastato in modo raccapricciante Paesi non troppo lontani (sperando che non vi siano colpi di coda d’agosto). Se la tragedia di Mati, in Grecia, ci ha sorpreso per l’enormità – purtroppo non per la localizzazione: ricordiamo i devastanti incendi nel Peloponneso nel 2007 e 2017 – quest’anno sono stati gravemente colpiti per la prima volta Paesi come Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia. Lo scorso anno, sono stati segnalati per la prima volta incendi persino in Groenlandia.

Ormai nessuno può aver dubbi sui cambiamenti climatici in atto e il mondo accademico comincia ad andare oltre dichiarazioni prudenti. Dalla semplice constatazione che un aumento degli incendi è una prevista conseguenza del cambiamento climatico, siamo ormai arrivati a dichiarazioni su nessi causali assai più espliciti. Con gli incendi quindi dovremo convivere, ma come?

È l’interrogativo che si sono posti Marc Castellnou Ribau e Alejandro García Hernández, due ingegneri forestali che in un articolo su El Pais hanno sciorinato una serie di dati impressionanti e alcune imbarazzanti conclusioni.

Il calore emesso dagli incendi che nel giugno e ottobre 2017 hanno devastato il Portogallo era, rispettivamente, 68 e 142 volte quello dell’atomica di Hiroshima. Nel 2017 gli incendi hanno inoltre disperso in atmosfera un quantitativo di ceneri superiori a quello che usualmente viene disperso dai vulcani del Pianeta in dieci anni.

Siamo ormai di fronte a “super incendi” (che i due autori chiamano “di sesta generazione”) che, alimentati dal caldo, dallo stress idrico e dall’accumulo di materiale combustibile in boschi sempre meno curati, generano colonne convettive che raggiungono altezze fenomenali. Nell’incendio del giugno 2017 in Portogallo la colonna raggiunse un’altezza di 15 chilometri. Fin quando le condizioni meteo furono favorevoli, il fuoco alimentò questa colonna d’aria calda. Ma quando le condizioni cambiarono – rendendo la combustione più difficile – la colonna collassò, generando venti che sono arrivati fino a 100 km/h e che hanno diffuso l’incendio in tutte le direzioni: il fronte del fuoco si è esteso bruciando 4.800 ettari in soli 21 minuti, uccidendo 64 persone.

La tesi dei due ingegneri forestali è che, nella lotta agli incendi, stiamo sbagliando strategia. Con mostri come questi, è inutile insistere investendo soldi solo nel loro contrasto. Gli autori sostengono che siamo diventati più bravi a estinguere gli incendi di piccole e medie dimensioni ma che il problema è altrove: in Spagna, Francia e Portogallo, il 98 per cento degli incendi ha interessato meno del 5 per cento delle aree incendiate. È il restante 2 per cento che ha devastato oltre il 95 per cento delle aree bruciate: i soldi pubblici sarebbero spesi meglio nella prevenzione.

I cambiamenti climatici quindi ci pongono di fronte a scenari inattesi. Quando un super incendio diventa meno violento, vuol dire che si è davanti al momento più pericoloso. La cura del territorio, evitando accumuli di materiali combustibili e minimizzando gli stress idrici, è il miglior investimento e gli incendi devono essere trattati come problema di “ordine pubblico”, con un approccio che piuttosto che “salvare tutto” decida strategicamente cosa è possibile salvare e cosa no (gli autori propongono l’analogia con la procedura di triage del Pronto Soccorso). Infine, i nuovi scenari ci suggeriscono che queste lezioni devono essere condivise da chi è chiamato a gestire (spesso rischiando) queste nuove, ma purtroppo non inattese, bombe climatiche.

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