di Paola Mancini
Un braccio fratturato, un cartone per sostenerlo. Chiunque capirebbe che è una cura inappropriata, che è un fatto che si potrebbe verificare soltanto in un paese del terzo mondo. È un dato concreto, materiale, evidente come la luce del sole.
E poi immaginatevi un bambino che dice: “Perché sono nato? Sarebbe stato meglio che io non fossi mai nato! La mia vita è così brutta”. Non ha niente apparentemente, non ha arti fratturati, organi danneggiati, infezioni o virus che compromettono le funzioni vitali del suo corpo; ha solo l’anima a pezzi, frantumata da incomprensioni, difficoltà relazionali, maltrattamenti psicologici impalpabili, invisibili ai più, eppure così vividi. Così vividi da rendere la vita quasi inutile da vivere. Quest’anima, questa psiche ha bisogno di cure ma si dirà: “Crescerà, il tempo guarirà le ferite, sarà la miglior cura…”.
Non è altrettanto evidente e intuitivo comprendere che questo ragionamento non è dissimile da un cartone per ricomporre un arto fratturato. Una psiche così segnata ha bisogno di cure specifiche, ha bisogno di psicoterapia.
Una cura oramai scomparsa dal Sistema Sanitario Nazionale così impegnato a sopravvivere esso stesso, vittima di tagli, di maltrattamenti e che a stento riesce a garantire le cure di base, quelle che servono alla sopravvivenza dei pazienti. Nessuno però si chiede che senso abbia una vita che si percepisce come non degna di essere vissuta. È un problema fittizio il benessere psicologico, una chimera che forse solo i ricchi possono permettersi: se vi sono bambini maltrattati, abusati sessualmente, donne maltrattate e traumatizzate, famiglie dilaniate, poco importa a una società della sopravvivenza. La sopravvivenza è un diritto, la vita è un lusso. Un lusso che forse l’Italia non può permettersi.
Ma non può permetterselo perché è povera o perché è piena di miseria? Quella miseria che ci fa pensare che i veri beni siano le cose concrete, perché tangibili, evidenti. Le emozioni, gli affetti, i vissuti, i sentimenti no. Tutto ciò che non si può toccare e che non è riconducibile a un bene materiale sembra non degno di nota. Così anche la nostra psiche, le nostre relazioni – costituenti la nostra persona – non sono degne di essere prese in considerazione da un Sistema Sanitario Nazionale alle prese con vincoli e assestamenti di bilancio, un Sistema il cui fine sembra essere il raggiungimento del massimo risparmio più che del benessere individuale e collettivo. Per questa ragione non si creano servizi in cui possano essere costruiti interventi più ampi volti a creare condizioni di benessere in senso lato e non solo di assenza di malattia, di ripristino delle condizioni iniziali di funzionamento efficiente di un corpo meccanico più che di una persona nella sua interezza.
Vogliamo lasciare davvero che sia una sorta di selezione naturale (o dovremmo dire sociale, di censo, di classe) a far sì che si possa raggiungere il benessere interiore, quella serenità che rende la vita un’avventura incredibile più che un inferno in terra? È una domanda a cui decisori politici, programmatori sociali e sanitari dovrebbero poter rispondere ma che già sappiamo non si avrà risposta alcuna. Continuiamo a non interrogarci, continuiamo a far sì che questi problemi non esistano. Ricordiamocelo alla prossima strage familiare, al prossimo omicidio-suicido, al prossimo femminicidio, al prossimo infanticidio, per poi tornare a dimenticarcene di nuovo.
* psicologa e psicoterapeuta