Che Donald Trump fosse il peggior presidente della storia degli Stati Uniti d’America – peggiore perché il più incolto, volgare, impreparato, pacchianamente narcisista, amoralmente corrotto e, per tutte queste ragioni, anche il più pericoloso – già era assolutamente chiaro molto prima che, vinte le elezioni grazie anche ad un sistema elettorale obsoleto e sballato, il palazzinaro newyorkese mettesse piede alla Casa Bianca. Meno facile – almeno per coloro che, del personaggio, avevano solo un’approssimativa conoscenza – era invece prevedere con quanto infantilismo intellettuale e con quanta personale meschinità Trump avrebbe, una volta occupata la presidenza, dato pressoché quotidiana testimonianza delle virtù di cui sopra.
Ultimo esempio d’una ormai infinita serie: il suo attacco – come d’abitudine lanciato via Twitter nel cuore della notte – contro la super-star della NBA, LeBron James; e, ancor più, contro Don Lemon, il giornalista della CNN (guarda caso anche lui di colore) dal quale LeBron era stato intervistato la sera prima.
Breve contestualizzazione della storia. Oggetto primo dell’intervista televisiva era la scuola che l’uomo dai più ritenuto il più grande cestista in attività ha recentemente deciso di creare ad Akron, nell’Ohio, cittadina nella quale è nato e, prima di diventare uno dei meglio pagati atleti del mondo, cresciuto in povertà. Perché una scuola? Perché, aveva spiegato James, proprio l’educazione è, in ogni circostanza, la via maestra per uscire dalla realtà materiale e culturale del ghetto (James seguirà ed appoggerà finanziariamente i ragazzi meritevoli che frequenteranno la sua scuola lungo tutto l’arco della carriera scolastica, dalle elementari fino all’università). Nel corso dell’intervista, LeBron era anche – con argomentazioni e toni ineccepibilmente signorili – tornato a criticare Trump (già lo aveva fatto in passato) per usare lo sport come “strumento di divisione tra americani”. E questo con ovvio riferimento al modo non sorprendentemente greve ed insultante – “licenziate quei figli di puttana” – col quale Trump era a suo tempo entrato nella polemica sui giocatori (in gran prevalenza afroamericani) della National Football League che, in segno di protesta per le (spesso omicide) violenze consumate dalla polizia contro cittadini di pelle nera, avevano deciso di ascoltare in ginocchio l’inno nazionale prima dell’inizio delle partite.
Nessun presidente, prima di Trump, sarebbe stato probabilmente anche solo sfiorato dall’idea d’entrare in polemica con un campione dello sport (particolarmente se impegnato in molto edificanti attività sociali come nel caso di LeBron James). E, nell’improbabile ipotesi che da questa idea fosse stato per qualche motivo tentato, ogni altro presidente l’avrebbe di certo fatto entrando, con un linguaggio appropriato, nel merito della critica che da LeBron James gli era stata rivolta. Ma, di nuovo, prima di Trump, nessun presidente era stato, neppure alla lontana, tanto grossolanamente ed indecentemente al di sotto – nella forma e nella sostanza – degli standard minimi di comportamento etico e politico imposti dalla carica che ricopre.
Sicché questo è quel che è accaduto. Donald Trump ha twittato un attacco nel quale, con eleganza tutta trumpiana, ha pesantemente insultato Don Lemon, definito “l’uomo più stupido che ci sia in televisione”, accusandolo d’esser riuscito nell’impresa – “non facile” ha con ammiccante ottusità sottolineato il presidente Usa – di far “sembrare intelligente Lebron (sic) James”. Il tutto seguito – classica cigliegina sulla torta o, peggio, tipico dispettuccio d’un bambino sciocco – da un altrettanto puerilmente ammiccante “I like Mike”, a me piace Mike. Mike, naturalmente, come Michael “His Airness” Jordan, il grandissimo campione che, prima dell’avvento di James, era (e da moltissimi ancora è) considerato il più grande giocatore di basket di tutti i tempi. A questo punto pare davvero di vederlo, Donald Trump, in calzoni corti, cantilenare beffardo: “Jordan è più bravo di te, Jordan è più bravo di te….”. Roba, davvero, da asilo mariuccia.
Considerato in termini assoluti, quello di Trump non è, a conti fatti, che il tweet di un bamboccio maleducato (o, ancor più a proposito, d’una mente senile). Considerato in termini relativi – relativi ovviamente al fatto che l’autore è oggi alla testa della più poderosa nazione del pianeta – è invece qualcosa di terrificante (tanto terrificante, in effetti, che non solo, com’era da attendersi, Michael Jordan, ma persino la first lady Melania ha sentito il dovere di manifestare, via Twitter, la propria solidarietà a LeBron James). Seguendo una classica formula stavo per aggiungere, in coda a “terrificante”, l’aggettivo “inimmaginabile”. Ma ho poi evitato di farlo perché, in realtà, proprio questo è il punto: quel che rende davvero terrificante quest’ultima performance trumpiana è, al contrario – come quasi quotidianamente testimoniato da altre decine di “tweetstorm” -, la sua assoluta “immaginabilità” o, per meglio dire, la sua ormai ampiamente acquisita normalità.
Non è infatti per una anomalia, o per un beffa del destino, che Donald Trump è asceso ai vertici del potere planetario. L’omuncolo vendicativo e puerilmente fuori controllo che traspare dal tweet anti-LeBron, il mediocre demagogo che, con lo stile d’un dittatorello bananero, ogni giorno fomenta i peggiori istinti dell’America bianca più revanscista, non è in fondo che questo: il segnale, il sintomo, d’una crisi globale della democrazia. Trump è, certo, il più ridicolo dei presidenti. E proprio per questo c’è da rabbrividire.