Il 2 agosto scorso il Consiglio dei ministri ha approvato l’ennesima versione dell’ordinamento penitenziario. I non addetti ai lavori saranno probabilmente disorientati e confusi. Ripercorriamo dunque le puntate precedenti, partendo da lontano.

Tra il 1931 e il 1975 la vita nelle carceri italiane era disciplinata dal regolamento fascista. La pena aveva tratti di disumanità e degradazione. Preghiera, silenzio e lavoro forzato ne erano gli elementi caratterizzanti. Durante gli anni della Resistenza alcuni grandi uomini della Patria furono arrestati e detenuti perché antifascisti. Tra loro Sandro Pertini. Una targa ricorda la sua carcerazione a Regina Coeli a Roma. Piero Calamandrei, straordinario giurista e politico di recente citato dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, come proprio punto di riferimento intellettuale, invocò una grande inchiesta sulle carceri, che allora erano luoghi di tortura. Pubblicò una meravigliosa raccolta di saggi nella rivista da lui diretta ‘Il Ponte’. La titolò ‘Bisogna aver visto’. Vi scrissero i padri della Patria, tra cui Ernesto Rossi e Altiero Spinelli. Avevano visto e subito in prima persona la violenza del carcere mussoliniano. Poi arrivò la Costituzione, che all’articolo 27 sancì che le pene non debbano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debbano tendere alla rieducazione del condannato. A scrivere quella norma contribuirono grandi personalità della storia repubblicana, come ad esempio Aldo Moro. Eppure dovette passare molto tempo, e solo nel 1975 fu approvato con legge un nuovo ordinamento penitenziario coerente con il dettato costituzionale.

Sono trascorsi 43 anni e quella legge richiede oggi necessari aggiustamenti. Il mondo è cambiato (basti pensare alla rivoluzione digitale), la criminalità non è quella degli anni 70, le professioni sociali sono modificate, la polizia è smilitarizzata, la sanità è regionalizzata. Si è consolidata una cultura diversa della pena tra gli operatori penitenziari e nel mondo dell’accademia, anche alla luce di analisi comparate. Tutti gli esperti di politica criminale e penitenziaria sanno che è necessario diversificare le sanzioni al fine di incrementare il loro senso di utilità individuale e sociale, favorire processi sani di recupero sociale facendo trascorrere gli ultimi pezzi di pena carceraria del detenuto fuori dalla prigione, dotare di senso il tempo passato in istituto, far diventare la galera un luogo di legalità e umanità. Si andrà così a costruire un Paese più sicuro senza assecondare le banalità del discorso forcaiolo fondato sulla logica della vendetta.

Nel 2014 era iniziato un percorso riformatore. Una buona intuizione dell’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva dato avvio agli Stati Generali sulla pena, una grande consultazione di esperti volta a riscrivere le norme del 1975, aggiornandole e modernizzandole. Con colpevole ritardo, il Parlamento aveva approvato nel giugno del 2017 una legge che delegava il governo ad attuare la riforma. Qualche mese dopo, tre commissioni ministeriali produssero i testi dei decreti delegati. Si estendeva la possibilità di accesso alle misure alternative, si modernizzava e migliorava la vita dentro le prigioni, anche alla luce delle condanne umilianti subite dalla Corte Europea dei Diritti Umani nel 2009 e nel 2013.

La lentezza, le paure, le timidezze e gli errori del governo precedente hanno fatto sì che quei decreti non arrivassero a definitiva approvazione, essendo necessario un ultimo avallo parlamentare.

Seguendo una logica del tutto opposta a quella del buon senso e all’idea di poca utilità del carcere di recente ricordata da Beppe Grillo in un suo post, il contratto di governo tra Lega e M5S ha chiuso ogni prospettiva di cambiamento, strizzando l’occhio a culture reazionarie e a logiche meramente vessatorie. La pena è descritta quale pura afflizione, come vorrebbero alcuni sindacati autonomi di Polizia penitenziaria. Si nega ogni misura alternativa al carcere nel nome del feticcio della pena certa (come se una pena alternativa non fosse comunque una pena). Si dice finanche no a un modello democratico ed europeo di pena detentiva, che preveda la possibilità di stare fuori dalla cella (ma pur sempre in prigione) per qualche ora al giorno. Senza alcuna ragionevolezza, si accontentano quei sindacati che vorrebbero ridimensionare i poliziotti a girachiavi di celle dove le persone sono costrette a trascorrere le giornate in ozio forzato.

Una volta vinte le elezioni, i decreti delegati scritti nell’autunno del 2017 sono arrivati al giudizio delle Camere. Le quali, come era prevedibile, hanno espresso un parere tendenzialmente negativo. Un parlamentare ha motivato il proprio parere contrario affermando che così vuole il popolo. E se il popolo volesse la ghigliottina?

I decreti sono stati dunque modificati nelle parti essenziali. Lo scorso 2 agosto il Consiglio dei ministri ha approvato uno schema di decreto di riforma che al proprio interno presenta poche innovazioni (seppur positive) rispetto al quadro attuale, rinunciando invece a dar seguito a norme di grande rilievo come quelle sull’esecuzione penale esterna, sulla salute psichica, sulla quotidianità detentiva. Un errore strategico che Calamandrei avrebbe giudicato imperdonabile. Il ministro ha detto che le poche norme approvate (che sono comunque state rinviate alle Camere per l’ennesimo parere) qualificherebbero la propria azione di governo come non da forcaiolo né da buonista.

Ma non è un buonista chi vuole una riforma che eviti la centralità della pena carceraria, che punti a norme educative per i minorenni – come sollecitato dall’Associazione Italiana dei Magistrati per i minorenni e per la famiglia, che nei giorni scorsi ha scritto ai parlamentari competenti sottolineando l’importanza di un ordinamento penitenziario minorile e di evitare automatismi imposti all’esecuzione pena dei ragazzi a prescindere dalla valutazione individuale sui bisogni rieducativi del singolo – che rompa l’equazione tra carcere e fabbrica di criminalità. Non è un buonista: è solo capace di riflessioni complesse, analitiche, attente alla sicurezza e ai diritti, pragmatiche e allo stesso tempo costituzionalmente orientate. Nel nome di Calamandrei, Pertini e Moro bisogna decarcerizzare la società e rendere più rispettoso della dignità umana quel che resta del carcere.

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