Girovagando per l’universo letterario di Lewis Carroll, ci si imbatte in alcuni processi che – sol provando a riflettere sulle condizioni degli imputati – si prestano a essere considerati in una prospettiva assai meno superficiale di semplici manifestazioni letterarie dello stupore, dell’ilarità e della diffidenza che il funzionamento delle istituzioni giudiziarie ha sempre e dovunque suscitato tra i profani.
1. Il primo lo troviamo in Alice nel Paese delle Meraviglie, nel “racconto in forma di coda” che il Topo fa ad Alice, per giustificare la propria avversione per i cani, ma anche per i gatti. Un cane di nome Fury incontra per caso un topo e, “non avendo niente da fare”, lo invita a partecipare con lui ad un processo, precisando che egli vi assumerà il ruolo di accusatore e il topo quello dell’accusato. Il topo obietta impaurito: che processo potrà mai essere senza giudice né giuria? “’Son giudice e giuria!’ fu del can la follia: ‘son io tutta la legge e ti condanno a morte’”, è la risposta del cane.
2. Il secondo, che si celebra presso la “corte” dei reali di Cuori, lo si trova nell’11esimo e nel 12esimo capitolo dello stesso libro. Imputato è il Fante, accusato di aver rubato dei dolci preparati dalla Regina, la quale è a un tempo parte lesa, coadiutrice del giudice e componente, con il Re stesso, dell’ufficio della pubblica accusa. La giuria è composta da 12 animaletti di varia specie, disorientati e ottusi. Araldo, usciere, cancelliere e in genere maestro di cerimonie è il Coniglio Bianco. Di avvocati difensori, nel testo non vi è traccia. Dopo la solenne lettura del capo d’imputazione, il re invita subito la giuria a pronunciare il verdetto, ma il Coniglio Bianco gli fa presente la necessità di assumere prima di tutto le prove.
Vengono allora sentiti, in veste di testimoni, il Cappellaio Matto, la cuoca della Duchessa e, finalmente, Alice. Esaurita, senza alcun esito apprezzabile, l’escussione dei testimoni, il Re torna a sollecitare il verdetto della giuria; ma è ancora una volta il Coniglio Bianco a impedirlo, segnalando al Re un documento decisivo, che si suppone provenga dall’imputato, quantunque non rechi traccia della sua calligrafia. Il documento, letto con la consueta solennità dal Coniglio Bianco, risulta contenere una poesia nonsense, come tale incomprensibile; ma ciò non impedisce al Re di esultare, fregandosi le mani.
È a questo punto che si accende una vivace disputa ermeneutica fra il Re e la Regina da una parte e dall’altra Alice, erettasi a tutrice del senso comune e indirettamente a difensore del Fante, la quale ribadisce la futilità della prova raccolta, mentre gli altri insistono nel ravvisare nel documento un’inconfutabile dimostrazione di colpevolezza del Fante. Il Re tronca la discussione, invitando per la terza volta la giuria a pronunciare il verdetto. Questo ennesimo sovvertimento delle regole processuali eccede la sopportazione di Alice, che, contestando drammaticamente la serietà e la realtà stessa della corte, pone fine repentinamente sia al processo sia al sogno in cui esso s’inserisce.
3. Anche il terzo processo carrolliano si colloca in una dimensione onirica, nel sesto “sussulto” di La caccia allo Snark: un Barrister, facente parte di un equipaggio salpato per dare la caccia allo Snark, mostro la cui identità e il cui aspetto non saranno mai rivelati, a un certo punto si addormenta e sogna di trovarsi “in una corte ombrosa”, dove proprio lo Snark (in toga e parrucca) è apparentemente impegnato nella difesa di un maiale. Nessuno enuncia chiaramente il capo d’imputazione: si arguisce l’accusa mossa all’imputato solo dopo che il mostro “inimmaginabile” e perciò non ritraibile parla già da tre ore.
Eloquente e puntiglioso, lo Snark indica la legge su cui si fonda l’accusa; allega la marginale partecipazione del suo assistito al delitto; ne sostiene la perfetta solvibilità; si richiama alla prova di un alibi, tanto più ridicola in quanto al maiale parrebbe contestarsi il reato di allontanamento dalla stiva; si rimette alla clemenza della giuria indicando al giudice come riferirsi alle sue annotazioni “per sintetizzare il caso”. Poiché, tuttavia, il giudice ammette candidamente di non aver mai sintetizzato prima le risultanze di una causa, a ciò provvede ancora lo Snark, che opera una sintesi così perfetta da ricomprendere anche quanto mai detto dai testimoni.
Quando tocca ai giurati pronunciare il verdetto, anch’essi declinano il compito, essendosi imbrogliati (a loro dire) nel sillabare le parole; tuttavia, osano sperare che sia sempre lo Snark ad assolvere quel dovere. Sebbene esausto per la fatica, il mostro provvede all’incombente e quando pronuncia “Colpevole!“, dalla giuria si leva un lungo gemito e qualcuno cade addirittura svenuto. Essendo il giudice troppo emozionato per pronunciare la sentenza, è necessario provveda anche a questo lo Snark e se quando commina la pena i giurati non nascondono la loro gioia il giudice resta invece dubbioso. Ma ecco che compare il carceriere, per comunicare, in lacrime, che il maiale è ormai morto da alcuni anni, sicché la sentenza non potrà essere eseguita. Alla notizia, il giudice s’allontana disgustato, mentre lo Snark, riassunto l’originario ruolo di difensore, riprende imperterrito la sua arringa, sui cui echi roboanti il Barrister si sveglia.
Nei tre processi carrolliani, le caratteristiche del due process of law sono ignorate, calpestate e derise quanto lo sono la logica, il senso comune, le regole del linguaggio, sicché, all’esito della lettura, si è più angosciati che divertiti: il Topo è tratto a giudizio senza nessun’altra giustificazione che la noia e il capriccio del suo accusatore, che in più si arroga la funzione di giudice e di giuria e gli preannuncia una condanna a morte; il Fante di Cuori, accusato di furto, si ritrova a dover fronteggiare, senza avvocato difensore, un giudice prevenuto e subordinato alla parte lesa, una giuria di animali stupidi e ignoranti e una serie di elementi probatori tanto più temibili e schiaccianti quanto meno sono razionali; il maiale patrocinato dallo Snark, se la morte non lo avesse già sottratto a ogni problema, subirebbe una condanna durissima, per un reato incerto e risibile, ad opera del suo stesso avvocato inopinatamente investito di funzioni giudicanti.