Una volta combattevano contro Assad, oggi sono (alcuni di loro lo erano già allora) a libro paga della Turchia e, contro la popolazione civile curda di Afrin, hanno fatto il peggio del lavoro sporco.
Come noto, nel gennaio di quest’anno l’esercito turco, spalleggiato da una pletora di gruppi armati siriani, ha lanciato un’offensiva militare contro le Unità di difesa del popolo (Ypg), la forza militare dell’Amministrazione autonoma curda diretta dal Partito dell’unione democratica (Pyd). Dopo tre mesi, l’esercito turco e i suoi scagnozzi locali hanno preso il controllo di Afrin e delle zone circostanti, costringendo migliaia di persone a fuggire e a cercare riparo nella zona di al-Shahba, dove tuttora vivono in condizioni estreme.
Tra maggio e luglio Amnesty International ha intervistato 32 persone, alcune ancora residenti ad Afrin e altre fuggite all’estero o in altre zone della Siria. Gli intervistati hanno indicato nei gruppi armati filo-turchi Ferqa 55, Jabha al-Shamiye, Faylaq al-Sham, Sultan Mourad e Ahrar al-Sharqiye i principali responsabili di gravi violazioni dei diritti umani.
L’esercito turco è ancora presente nel centro di Afrin e in diversi villaggi adiacenti. Il 1° luglio il ministro degli Affari esteri di Ankara ha dichiarato che le forze armate turche resteranno ad Afrin per “continuare a lavorare allo sviluppo della zona”. I gruppi armati filo-turchi si sono distinti nei rapimenti, a scopo di riscatto o di punizione per aver preteso la restituzione delle loro proprietà o per l’insussistente accusa di far parte delle Ypg o del Pyd. Ma non solo. Secondo fonti locali, da gennaio ci sono stati almeno 86 casi di detenzioni arbitrarie, torture ed esecuzioni extragiudiziali.
Gli stessi gruppi armati hanno fatto razzie in appartamenti e negozi. Mentre decine di migliaia di abitanti di Afrin erano costretti a lasciare la città (col divieto da parte delle Ypg di farvi rientro, per motivi di sicurezza, anche se in molti l’hanno aggirato passando per le montagne), molte delle loro case venivano requisite per farne basi militari od occupate da famiglie di sfollati da altre zone della Siria, come la Ghouta orientale od Homs.
Ad aprile un portavoce del tribunale militare ha affermato in un’intervista che c’erano stati casi di saccheggio durante le operazioni militari, sia da parte di uomini armati che di civili, ma che ora il tribunale aveva iniziato a restituire i beni ai loro proprietari. Ha aggiunto che, in collaborazione con la polizia militare di Azaz e con le forze armate turche, i responsabili dei saccheggi erano stati arrestati e rinviati a processo.
Tuttavia, una persona rientrata ad Afrin un mese dopo, ha raccontato ad Amnesty International di aver trovato la casa dei genitori completamente vuota:
“Si erano portati via ogni cosa. I vicini hanno visto quelli dell’Esercito libero siriano caricare tutto su dei furgoni. Ma siccome il villaggio è controllato da quattro diversi gruppi armati, non sappiamo quale di loro sia stato il responsabile”.
Come prevede il diritto internazionale umanitario la Turchia, come potenza occupante, ha l’obbligo di garantire il benessere della popolazione occupata. E dunque, deve fornire piena riparazione a coloro le cui case sono state confiscate, distrutte o saccheggiate dai suoi soldati o dai gruppi armati. Deve inoltre garantire che tutte le scuole occupate a scopo militare o distrutte o destinate ad altro uso possano riprendere al più presto le attività. Lo stesso vale per l’Università di Afrin, completamente distrutta.
Intanto, almeno 140.000 persone vivono in case danneggiate o nei campi profughi della regione di al-Shahba, senza accesso adeguato a servizi fondamentali, in particolare alle cure mediche.
Nella zona ci sono solo un ospedale e due ambulatori che forniscono cure mediche di base e medicinali. Non ci sono medici esperti né attrezzature per effettuare operazioni chirurgiche o curare gli ammalati cronici. La struttura sanitaria meglio attrezzata e più vicina è l’ospedale di Aleppo ma per andarci occorre un permesso che dev’essere rilasciato dal governo siriano.
Al momento della conclusione della sua ricerca, ad Amnesty International risultava che circa 300 persone affette da malattie croniche o gravemente ferite fossero in attesa del permesso. Da metà marzo, ne sono stati emessi solo 50.
Il 16 luglio Amnesty International ha trasmesso al governo turco una sintesi delle sue conclusioni preliminari, chiedendo una risposta. Il 25 luglio questa è arrivata ma si è limitata a mettere in dubbio l’imparzialità dell’uso di espressioni quali “regione di al-Shahba” e “Amministrazione autonoma”…