Gugliemotti, chi era costui? Alberto, figlio di Lorenzo – ufficiale della Marina Pontificia – era stato battezzato Francesco. All’ingresso nell’Ordine dei domenicani (1827) scelse Alberto in onore di Sant’Alberto Magno, dottore della Chiesa. Pubblicò una ponderosa storia della marineria pontifica oltre al saggio che lo rese famoso, Marc’Antonio Colonna alla battaglia di Lepanto, evento chiave del confitto tra cristiani e ottomani (1571). Attorno alla figura di questo dotto religioso, filologo e storico navale pontificio e poi sabaudo, la Regia Marina creò un vero e proprio culto, riconoscendogli il merito di “aver rimesso in fiore le voci e le frasi del linguaggio marino e militare usato a Roma, a Pisa, a Livorno e per tutta la penisola, onorata e non piccola parte del nostro patrimonio artistico e letterario”, per liberarsi “dalla miseria e dalla vergogna di andare adottando pel mondo voci e frasi o servili o straniere o inutili”. Tutte frasi sue, che lo fecero amare dal potere dell’epoca. Poiché la marineria era viziata dagli inglesismi, Guglielmotti diventò il simbolo di una italianità che l’attuale sovranismo non mancherà di riproporre, in ossequio alla lezione di Cavour: «Voglio delle navi tali da servire in tutto il Mediterraneo, capaci di portare le più potenti artiglierie, di possedere la massima velocità, di contenere una grande quantità di combustibile […] affinché l’organizzazione della nostra Marina Militare risponda alle esigenze del Paese».
Se fossi un sommergibilista, sarei preoccupato in caso d’imbarco su una unità chiamata Guglielmotti. Oltre al relitto della Grande Guerra rilevato sul fondo del Tirreno in questi giorni, un altro Guglielmotti (classe Brin della Regia Marina) fu affondato dal sommergibile britannico HMS Unbeaten il 17 marzo 1942, mentre si trovava a 15 miglia a sud di Capo Spartivento. Scomparvero 61 marinai e fu recuperato un solo corpo. Ma torniamo al ritrovamento del primo, perché l’uomo è sempre stato affascinato dalla profondità del mare. Della trilogia di Jules Verne ricordiamo soprattutto il Nautilus, protagonista di Ventimila leghe sotto i mari (1870), così come, tra i film di guerra sotto i mari, non possiamo dimenticare il più bello: U-boat 96 di Wolfgang Petersen. E chi non ha mai giocato a battaglia navale?
Il Guglielmotti, che giace a 400 metri di profondità a nord ovest della Capraia, era una delle due unità della sperimentale classe Pacinotti, le prime a elevato dislocamento. L’altra finì la sua carriera sana e salva, radiata nel 1921 e demolita. Un risultato salomonico, se si pensa che, nel corso della Grande Guerra, il Regno Unito perse 54 sommergibili su 137, mentre la flotta sottomarina tedesca, che con 351 unità aveva affondato 13 milioni di tonnellate di naviglio nemico o neutrale, si era ridotta a meno della metà (173). Insomma, la guerra sott’acqua è tra le meno serene, se affondò perfino il primo sommergibile bellico; e con lui l’intero equipaggio. Era il CSS Hunley ad azionamento umano, che scomparve in mare mentre tornava alla base carico di gloria dopo aver affondato la USS Housatonic, una pirofregata nordista, durante la Guerra di Secessione (1864).
Come racconta un famoso saggio bellico sul fuoco amico, il comandante della HMS Cyclamen comunicò ai superiori: «Abbiamo speronato e affondato un sottomarino nemico. Sembra che i sopravvissuti parlino italiano». Già, accidenti agli inglesi, ma quella prima volta nostri alleati. Avevano attaccato per sbaglio il Guglielmotti, emerso a sua volta per sbaglio, credendolo un U-boat nemico. Erano le 21:50 del 10 marzo del 1917. E, verso la fine la Grande Guerra, un altro sommergibile italiano, l’H-5, fu affondato dal fuoco del solito “amico” inglese, il sommergibile HB-1. Erano partiti da Brindisi in missione congiunta e, quando rientrò alla base, l’HB-1 recava a bordo i 5 superstiti dell’equipaggio di 20 marinai del povero H-5 che aveva silurato.
Già Tucidide, narrando la battaglia di Epipoli (413 a.C.) tra Ateniesi e Siracusani descrive il ruolo del fuoco amico nella disfatta ateniese. E 2400 anni dopo, parlando della Guerra del Golfo del 1991, la rivista del United States Army War College annota «la spiacevole realtà che non è possibile eliminare totalmente le vittime del fuoco amico sui moderni campi di battaglia». In battaglia, agli amici mi guardi Dio…
Il destino del Guglielmotti sradica ricordi antichi. Sono seduto nell’anticamera di un ambulatorio militare, in attesa di visita quale aspirante ufficiale di complemento nella Marina. E mi si avvicina un giovane marcantonio in divisa, che ora sarà certamente diventato ammiraglio: “Hai un fisico perfetto per il sommergibile”.
“Non ci ho mai pensato” devo aver bofonchiato, un po’ piccato per il giudizio implicito sulla mia statura.
“Certo la vita non è facile, in immersione. Si sta strettissimi. Anche quando si dorme. La cuccetta è condivisa, si chiama branda calda. Le giornate durano forse 18 ore, forse non durano neppure. E poi la puzza. Immagina 30 uomini chiusi a lungo in una stanza senza poter mai aprire una finestra” continuò sogghignando.
Ho pensato subito alle flatulenze. Poi ho rimuginato che soffro di claustrofobia. Compilare quella domanda era stata davvero una buona idea? Dopo pochi minuti sarei entrato là dentro. E il mio destino sarebbe stato segnato per sempre. Fu allora che m’illuminò l’esperienza di un collega. Era stato riformato con una perentoria motivazione: piedi puteolenti.