“Chiunque faccia affari con l’Iran NON farà affari con gli Stati Uniti”. In un tweet del mattino, Donald Trump ha annunciato il ritorno delle sanzioni contro l’Iran. “Non chiedo altro che la PACE NEL MONDO, niente di meno, ha aggiunto Trump, che in questo modo non si limita a prendere di mira Teheran ma lancia anche un chiaro avvertimento all’Unione Europea: chi non si adegua alla volontà di Washington rischia una pesante rappresaglia. L’avvertimento di Trump, per il momento, non sembra aver sortito l’effetto desiderato. In visita in Nuova Zelanda, Federica Mogherini, alto rappresentante per gli affari esteri dell’Unione Europea, ha detto che la Ue incoraggia le imprese a continuare i loro affari con l’Iran. Se infatti, a giudizio di Trump, l’Iran non ha dato seguito agli accordi sul nucleare stipulati nel 2015 – ragion per cui gli Stati Uniti, lo scorso maggio, si sono ritirati dall’accordo – l’Europa ritiene che l’Iran stia rispettando gli impegni.

Un nuovo pacchetto di sanzioni verranno imposte da Washington nei confronti di Teheran il prossimo novembre: interesseranno petrolio, banche e settori della cantieristica e delle spedizioni navali. Quelle attuali, imposte a partire dal 7 agosto con un ordine esecutivo della Casa Bianca, proibiscono l’acquisto da parte dell’Iran di dollari Usa e il commercio in oro e metalli preziosi (parte di un tentativo più vasto di tagliar fuori Teheran dal sistema finanziario internazionale). Soggetti alle sanzioni sono una serie di scambi da e verso l’Iran di tappeti, grafite, alluminio, acciaio, carbone, software per l’integrazione dei processi industriali (ciò che toccherà soprattutto l’industria dell’automobile e quella sanitaria). Oltre a proibire a persone e società statunitensi di fare affari con l’Iran, la mossa di Washington vuole essere globale: si tratta infatti di “sanzioni secondarie”, che colpiscono tutti quei soggetti non statunitensi che mantengono relazioni economiche e commerciali con l’Iran.

La risposta iraniana è arrivata attraverso il presidente Hassan Rouhani, secondo cui le sanzioni vogliono scatenare “una guerra psicologica” che punta a “seminare divisione tra gli iraniani”. In effetti, la reimposizione delle sanzioni arriva in un momento non facile per l’economia iraniana. Il riyal ha perso la metà del suo valore nei confronti del dollaro nel giro di qualche mese. L’impegno iraniano in Siria, Iraq, Yemen, Libano e Gaza ha avuto un effetto pesante sulle casse del Paese. Le accuse di corruzione, che riformisti e conservatori rilanciano gli uni contro gli altri (oltre a quelle nei confronti di uomini d’affari accusati di aver goduto illegalmente di sussidi governativi), indeboliscono ulteriormente l’autorevolezza del regime. In giro per il Paese si moltiplicano le proteste con le ragioni più varie: dalla disoccupazione alla scarsità d’acqua. Secondo molti analisti, la distanza tra governo e popolazione non è mai stata così profonda dalla rivoluzione islamica del 1979.

Le nuove sanzioni, soprattutto quelle del prossimo novembre, hanno allora per Washington soprattutto questo obiettivo: rendere ancora più profonda la crisi di Teheran; indebolire quanto più possibile il ruolo regionale che l’Iran intende giocare. John Bolton, il consigliere alla sicurezza nazionale, ha spiegato che “la nostra strategia non è il regime change”. Le sanzioni, in realtà, prendono come spunto e ragione immediata le presunte infrazioni da parte dell’Iran al “Joint Comprehensive Plan of Action” (Jcpoa, l’accordo sul nucleare) e vogliono esercitare una pressione senza precedenti nei confronti dell’Iran. Per i falchi americani, l’accordo sul nucleare e la fine delle sanzioni erano un pericolo, perché davano a Teheran la possibilità di riorganizzare l’economia ed esercitare in modo più tranquillo la propria egemonia regionale. Reimporre le sanzioni significa favorire l’instabilità. Nonostante le assicurazioni di facciata, l’obiettivo di settori dell’amministrazione americana sembra infatti proprio quello del “cambio di regime”: da raggiungere non attraverso l’opzione militare, ma grazie a un progressivo indebolimento dell’economia iraniana, non in grado di sostenere le richieste di una popolazione in gran parte giovane (l’88 per cento degli iraniani ha meno di 54 anni) e lontana dagli ideali della rivoluzione khomeinista.

Altro fronte che si apre, nella reimposizione delle sanzioni, è ovviamente quello con l’Europa. Un comunicato comune, preparato da Moghrini insieme ai ministri di Francia, Germania e Regno Unito, dice che il Jcpoa, l’accordo sul nucleare, “è cruciale per la sicurezza globale”. “Siamo determinati a proteggere gli operatori economici europei impegnati in un business legittimo con l’Iran, in accordo con la legge europea e la risoluzione 2231 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU”, dice il comunicato. L’Unione Europea pensa dunque di introdurre il cosiddetto “statuto di blocco” (pensato nel 1996 per contrastare le sanzioni Usa a Cuba), un meccanismo che consente agli operatori colpiti dalle sanzioni di ottenere risarcimenti dalle entità che hanno provocato il danno economico. Sono del resto numerose le aziende europee che rischiano di pagare le sanzioni Usa. Si va dalle case automobilistiche come Peugeot e Renault (che hanno già annunciato tagli agli investimenti in Iran) a colossi petroliferi come Total, al costruttore di aeromobili Airbus a Fincantieri e Siemens. La risposta europea è peraltro destinata a peggiorare ulteriormente lo stato delle relazioni, già molto deteriorate, con l’amministrazione di Donald Trump.

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