“In quei cassoni il caporale monta delle panchine improvvisate, spesso di legno, e i lavoratori li stipa come bestie per portarne il più possibile al campo”. Quando il telefono squilla all’altro capo delle linea, il furgoncino bianco è ancora capovolto, sulla strada statale 16, all’altezza di Ripalta, nel Gargano. I corpi sono a terra e ci rimarranno fino a sera. Marco Omizzolo, sociologo, responsabile scientifico della coop In Migrazione, su quei furgoni saliva fingendosi bracciante per studiare i meccanismi del caporalato nell’Agro Pontino. “Basta prendere una curva ad alta velocità – racconta – e chi c’è dentro viene scaraventato sul lato opposto, insieme all’eventuale carico. E’ chiaro che quando nel cassone hai anche solo quattro persone che dal lato destro del veicolo si spostano all’improvviso sul lato sinistro, il mezzo si sbilancia e cambia direzione”. Spesso finendo nell’altra corsia.
Sul camioncino che ieri si è sbriciolato contro un tir nel territorio di Lesina, nel foggiano, sono morti in 12. Tutti migranti, 7 erano regolari. Invece in quello che il 4 agosto si era schiantato sulla provinciale 105 tra Ascoli Satriano e Castelluccio dei Sauri, qualche decina di km più a sud, viaggiavano in 8 e a perdere la vita erano stati in 4. Tornavano tutti dal lavoro nelle piantagioni di pomodori. “Ricordo che in uno dei furgoni su cui avevo lavorato, nelle campagne di Latina – prosegue Omizzolo – avevano tolto le due ruote di scorta e nel loro alloggiamento avevano montato una sedia, saldata malamente e legata con del filo di ferro, per ospitare una persona in più”. Il caporale lo fa per mestiere, perché i braccianti pagano per farsi portare sul campo: “Quando va bene il viaggio costa 5 euro, per il panino ne servono 3,50 e un euro e 50 per la bottiglietta d’acqua. Più ne portano e più guadagnano”. Il caporale viene pagato anche dall’azienda: “Se le fornisce 4 persone ha un profitto, se ne porta 8 l’incasso raddoppia”.
I camioncini diventano così carri per il trasporto bestiame. La cronaca parla di 16 morti in 3 giorni. Fanno notizia perché sono molti e concentrati in così poco tempo. Ma la prassi è antica. E nota: “Noi registriamo continuamente casi di questo tipo – prosegue Omizzolo, che è anche ricercatore dell’Eurispes – morti sul lavoro legati a un sistema fondato sullo sfruttamento e sul caporalato. Si continua a non voler applicare la legge 199/2016 (per il contrasto al caporalato, ndr), non si fanno controlli e c’è una responsabilità politica enorme di chi fa retorica elettorale sulle migrazioni, vuole cancellare la legge 199 e non decide di affrontare seriamente il problema”.
Gian Marco Centinaio, ministro dell’Agricoltura in quota Lega, da giugno ripete che la legge va cambiata. “Non va cambiata, ma applicata – ribadisce Omizzolo – dovrebbe essere organizzato un sistema di controlli adeguato che comprenda non solo le aziende, ma anche le strade che portano ai campi. I caporali vanno a reclutare queste persone nei ghetti. La domanda da porsi è: perché esistono ancora questi ghetti? Ancora: portare a lavorare nelle aziende 12 persone dentro un furgoncino, trattate come merce, impiegate 10 o 12 ore nella raccolta dei pomodori girando in tutta tranquillità per le nostre strade significa che si tratta di un sistema che è diventato sociale“. E socialmente accettato: “Tutti a Latina sanno dove vanno gli indiani in bicicletta la mattina presto o da quali campi tornano la sera i braccianti a bordo di questi furgoncini nelle campagne di Foggia. Lo sanno tutti, lo vedono tutti: la popolazione, le forze di polizia, le forze politiche. E’ tutto alla luce del sole“.
Per questo fenomeno Omizzolo utilizza un termine preciso “Secondo dati dell’Osservatorio “Placido Rizzotto” della Flai Cgil presentati due settimane fa, in Italia circa 430mila persone sono vittime di sfruttamento lavorativo, in molti casi di caporalato. Di queste, circa 130mila vivono in condizioni paraschiavistiche. Ogni anno, e soltanto in agricoltura”. Tradotto: riduzione in schiavitù. “Sono sottoposte a umiliazione, negazione dei diritti, da individui diventano un oggetti utili solo a creare profitto a vantaggio di alcuni. E spesso questi ‘alcuni’ sono mafiosi – prosegue Omizzolo – la nuova legge sul caporalato non serve sono a combattere lo sfruttamento, ma anche a liberare il lavoro dalle mafie”.
Le organizzazioni non sono le sole a lucrarci: “Ci guadagnano anche un sistema produttivo che non necessariamente è mafioso, e anche una parte della politica che con la retorica del ‘migrante uguale deviante‘ criminalizza il bracciante straniero e lo obbliga a restare nella condizione di schiavo in cui si trova”. La piaga affligge soprattutto il Centro-Sud, in primis la Puglia, la Calabria, la Sicilia, il Lazio e la Campania. Un esempio: qualche giorno fa Caserta un bracciante indiano è stato abbandonato davanti alla stazione ferroviaria. “Era in fin di vita, probabilmente aveva lavorato per oltre 10 ore sotto il sole, questo sole. Dopo due giorni di agonia in ospedale, è morto”. Si chiava Singh, aveva 38 anni, i giornali locali raccontano che lavorava nei campi di pomodori tra Castelvolturno e Villa Literno: “Ma abbiamo casi gravi e in aumento anche nel Nord, in Emilia, in Lombardia e in Veneto”.
Sono passati sette anni dal primo sciopero dei braccianti stranieri mai avvenuto in Italia, proprio in Puglia, organizzato dal camerunense Yvan Sagnet nel 2011. Cosa è cambiato? “Quello sciopero fu fondamentale perché portò la questione all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale e perché determinò la nascita di una legge, la 603 bis, che prevedeva la responsabilità penale per il caporale e iniziava a riconoscere il caporalato come un reato di mafia. Da quella contestazione scaturì nel 2016 lo sciopero di braccianti indiani, che ha contribuito alla creazione di una legge ancora più restrittiva, la 199. Gli scioperi servono, ma se poi il loro messaggio non viene raccolto dalla politica lasciano il tempo che trovano”.
Il premier Giuseppe Conte e il ministro dell’Interno Matteo Salvini hanno annunciato la lor presenza, oggi a Foggia. La speranza degli operatori è che si inverta il trend osservato finora: “Una delle ragioni per cui non lo si vuole affrontare concretamente – osserva Omizzolo – è che questo tema unisce la questione migratoria e quella del lavoro alla questione della grande distribuzione: a me piacerebbe sapere dove andavano quei pomodori. Scommetto che erano destinati alle grandi aziende di trasformazione dei pomodori, che poi noi compriamo sotto forma di pelati o salsa nei grandi supermercati. Si toccano quindi i gangli di un sistema economico e politico enorme”.
I due incidenti mortali degli ultimi tre giorni hanno un legame diretto con la passata che noi compriamo per cucinare in casa un piatto di pasta al sugo: “Al supermarket chiediamo prodotti sempre di maggiore qualità a un costo sempre minore, ma per tenere basso il costo il sistema di produzione specula sul lavoro, cioè abbassa diritti e salari e aumenta gli orari nelle serre. Nelle campagne c’è il risultato palese di tutto questo. E quando vogliamo la passata a 90 centesimi – conclude il sociologo – dobbiamo sapere che qualcuno la produce per ‘stare dentro’ quei 90 centesimi. Impiega, cioè, schiavi”. Che una qualunque sera della loro vita, tornando a casa ammassati nel cassone di un furgoncino dopo oltre 10 ore nei campi, possono finire ammazzati in un frontale con un tir nelle campagne del foggiano. O di una qualunque altra parte d’Italia.