La nave, su cui la cronista de ilfattoquotidiano.it è imbarcata da otto giorni, perlustra l’area tra Zuara e Sabratha, salendo verso nord e quindi verso Lampedusa. In attesa di avvistamenti, continuano i training dell'equipaggio
Ottavo giorno di navigazione per Aquarius, impegnata nel pattugliamento in acque internazionali in zona SAR (Search and Rescue, ricerca e soccorso) di fronte alla Libia. La nave fa su e giù, avvicinandosi e allontanandosi, seguendo un tragitto che è quello – qui si dice – più battuto dalle imbarcazioni dei migranti. Una sorta di canale a est, di fronte all’area tra Zuara e Sabratha, salendo verso nord e quindi verso Lampedusa. Qui, a 60-70 miglia dalla Libia si incrociano delle piattaforme petrolifere da cui si alzano, di notte, fiamme altissime, visibili da molto lontano. E che possono quindi servire, in qualche modo, da punti di riferimento, anche se quasi mai le imbarcazioni utilizzate riescono effettivamente a mantenere la rotta.
Intanto i training a bordo si susseguono e occupano tutta la giornata. Tra questi c’è quello sul “flagging people”: a ognuna delle persone soccorse verrà dato uno o più braccialetti che identificano in qualche modo le informazioni raccolte a bordo in merito alle loro storie e situazioni. Per segnalare alle autorità a terra, al momento dello sbarco, i casi “vulnerabili” e quindi eventualmente eleggibili per la protezione internazionale e per lo status di rifugiato.
Quello delle migrazioni non è certo un fenomeno nuovo, ma è antico come il mondo. Lo sottolineano l’UNHCR, l’International Chamber of Shipping (ICS) e l’International Maritime Organisation (IMO) in un documento del 2015, “Soccorso in mare. Una guida a principi e pratiche applicati a rifugiati e migranti”. Le attività di “soccorso e lo sbarco delle persone in un ‘posto sicuro’” – si legge – “coinvolgono un range di attori, ognuno dei quali ha delle particolari obbligazioni ai sensi del diritto del mare ma anche ai sensi di norme internazionali come le leggi per i rifugiati e i diritti umani”.
Anche quando un soccorso è stato portato a termine, sottolinea il documento, “possono sorgere problemi nell’assicurare l’accordo tra gli Stati allo sbarco dei migranti e dei rifugiati”. È per questo che i paesi che fanno parte dell’IMO “hanno adottato degli emendamenti a due delle principali convenzioni marittime nel 2004”. Gli stati membri – quindi anche Italia, Malta, Spagna, Francia, per esempio – “hanno così un’obbligazione nel coordinare e cooperare affinché le persone soccorse in mare vengano sbarcate in un place of safety il prima possibile”. Non solo. La stragrande maggioranza degli Stati, spiega l’Organizzazione internazionale delle migrazioni delle Nazioni Unite, “ha ratificato strumenti internazionali che riflettono il principio per cui tutti i migranti, indipendentemente dal loro status migratorio, hanno diritto a veder rispettati, protetti e realizzati i loro diritti umani”. Però “ci sono troppi casi in cui i migranti sono soggetti ad abuso, sfruttamento, discriminazione e altre gravi violazioni dei diritti umani”. E questo, dice l’IOM, accade non per “assenza di strumenti internazionali”, ma per “mancanza di un’attuazione efficace di quegli strumenti e di un’adeguata cooperazione internazionale”.
Se le persone salvate in mare, dice la Guida, “affermano di essere rifugiati o richiedenti asilo, o in qualche modo manifestano paura di persecuzioni se sbarcate in un posto particolare, è necessario seguire i principi chiave delle leggi internazionali per i rifugiati”. Non sono naturalmente le navi di salvataggio a determinare lo status di una persona salvata in mare, se irregolare o destinatario di protezione internazionale: se ne occupano le istituzioni al momento dello sbarco. Ma le navi possono dare una mano. “Aquarius in questo senso è molto organizzata, e istituzioni e ong a terra, nel momento dello sbarco, apprezzano il lavoro che facciamo a bordo: quello di un primo screening e un’indicazione, non vincolante, dei casi vulnerabili e della possibile protezione umanitaria a cui le persone salvate potrebbero avere diritto a partire da quello che ci raccontano nei giorni di navigazione dopo il soccorso”, spiega Aoife, infermiera di Medici senza Frontiere e punto di riferimento a bordo proprio per l’individuazione e il trattamento delle vulnerabilità. D’altro canto, mediatori culturali e ong sono o sono stati a bordo anche delle imbarcazioni della Guardia Costiera e della Marina Militare italiane. Dal 2016, “a bordo delle unità maggiori del Corpo della Guardia Costiera impegnate nelle attività di Ricerca e Soccorso nel Mediterraneo”, si legge in una recente nota di Intersos, “in particolare sulle navi Diciotti e Dattilo – operatori specializzati e mediatori culturali Intersos e Unicef sono stati impegnati in attività di informazione e assistenza umanitaria a adulti e minori non accompagnati”. 42 missioni, l’ultima delle quali è stata proprio quella del 16 giugno scorso, “quando la Dattilo, con il suo carico di vite umane”, è approdata a Valencia: 274 persone dei 629 migranti trasbordati dall’Aquarius, di cui 60 minori provenienti da Eritrea, Sudan, Guinea Conakry, Mali, Nigeria, Ghana, Guinea Bissau, Gambia, Senegal, Ciad”. Proprio l’ultima missione di Aquarius prima di quella in corso, partita il 1 agosto da Marsiglia dopo uno stop tecnico di più di un mese.
Secondo molti Paesi europei, sono eleggibili per la protezione umanitaria 10 categorie di persone: minori, minori non accompagnati, persone disabili, persone anziane, donne incinta, genitori soli che viaggiano con figli minorenni, vittime di human trafficking, persone affette da malattie gravi o con problemi psicologici, vittime di tortura, stupro o di altre forme di violenza psicologica, fisica, sessuale, vittime di mutilazioni genitali. “Dopo un soccorso”, racconta Seraine, mediatrice culturale per MSF a bordo di Aquarius, “il team di Medici senza Frontiere registra genere, origine, età dichiarate”. A ogni persona registrata viene fatto indossare un braccialetto rosso. Chi ha meno di 17 anni anni ne aggiunge uno giallo, giallo con una linea nera in caso di minore di 15 anni. Con altri braccialetti vengono segnalati i casi medici. Con il verde i casi di scabbia. E con un braccialetto azzurro le persone “vulnerabili” che potrebbero essere eleggibili per la protezione umanitaria. “Una volta a bordo, una volta che si sentono sicuri dal mare e che capiscono che non verranno riportati in Libia, cominciano a parlare e raccontare la loro storia”, dice Seraine. Al team medico, ai mediatori culturali, a chi è a bordo, ai giornalisti. Chi per esempio raccoglie, per varie ragioni, testimonianze di violenze, stupri, torture, lo segnala – dopo aver informato la persona interessata – a Seraine, all’altro mediatore, Ben, o alla stessa Aoifa. Questi ultimi parleranno nuovamente con la persona in questione, e decideranno se farle indossare o meno il braccialetto azzurro. “A bordo teniamo poi un registro con la descrizione completa delle loro storie”, dice Aoife. “Testimonianze preziose che possono aiutare le autorità a terra a capire meglio ed eventualmente instradarli per la protezione internazionale. Quel braccialetto è un’informazione, niente di più. Ma può cambiare la vita di queste persone”.