Un fucile calibro 12, ritenuto lo stesso che il 9 agosto 1991 ha ucciso il giudice Antonino Scopelliti nei pressi di Campo Calabro, è stato ritrovato a distanza di 27 anni dalla Dda di Reggio Calabria che continua a indagare, con la la squadra mobile e lo Sco, su chi siano i killer che ammazzarono il magistrato che da lì a poco avrebbe dovuto sostenere, in Cassazione, l’accusa nel maxiprocesso a Cosa Nostra.
La notizia è stata data dal procuratore Giovanni Bombardieri nel corso dell’annuale commemorazione a Piale davanti alla stele dedicata al giudice Scopelliti. Adesso saranno gli accertamenti tecnici a fornire al capo della Dda e ai due aggiunti Giuseppe Lombardo e Gaetano Paci la certezza che si tratti della stessa arma.
Il rinvenimento è avvenuto in provincia di Catania, in un terreno oggi di proprietà di persone estranee all’inchiesta e perciò non indagate. Un terreno che all’epoca, però, era nella disponibilità di un soggetto legato alle cosche siciliane e alle famiglie mafiose calabresi.
I pm sono abbottonatissimi su come si è arrivati al fucile ma la sensazione è che ci sia una gola profonda che possa avere indicato agli investigatori il luogo esatto in cui l’arma era nascosta. I riscontri raccolti dagli uomini del questore Raffaele Grassi e del capo della mobile Francesco Rattà hanno fatto il resto consentendo alla Dda di fare un salto di qualità all’inchiesta.
“Quella di oggi – sono state le parole di procuratore Bombardieri – è una cerimonia importante, sono passati tanti anni da quando un servitore dello Stato, un collega impegnato seriamente nel suo lavoro, è stato assassinato barbaramente, ed è un giorno ancora più importante perché possiamo dire che nelle indagini che la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria sta portando avanti sempre in relazione a quel fatto atroce, abbiamo raggiunto e aggiunto un tassello importante”.
“A seguito di un’attività mirata – ha sottolineato ancora il capo della Dda – riteniamo di aver rinvenuto e sequestrato l’arma con cui è stato assassinato il consigliere Scopelliti. Una serie di elementi ci inducono a ritenere che l’arma rinvenuta e sequestrata, peraltro nel territorio del catanese, sia quella utilizzata per l’omicidio. È un’attività della Dda in relazione alla quale però al momento non aggiungiamo altro. Ci sembrava doveroso dirlo oggi, è un sequestro dei giorni scorsi, per rispetto alla memoria del collega e della sua famiglia”.
Quel 9 agosto i killer spararono nella frazione Piale di Villa San Giovanni. Nel processo per l’attentato a Scopelliti, che si è celebrato anni fa a Reggio Calabria, furono tutti assolti. Ma i pm non hanno mai mollato e da tempo stanno incrociando i documenti dell’inchiesta sull’omicidio con quelli del processo “’Ndrangheta stragista” che è in corso a Reggio Calabria e che vede imputato anche il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano come mandante dell’attentato di Scilla in cui, nel 1994, morirono due ai carabinieri.
La Dda è a un passo dal capire se l’uccisione del giudice Scopelliti sia stata il primo capitolo della strategia stragista o, peggio ancora, la prima dimostrazione di forza utilizzata delle mafie, e non solo, per costringere lo Stato a sedersi al tavolo della “trattativa”. Anche se secretati, sulla sua scrivania del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ci sono già i nomi dei killer che hanno sparato al giudice Scopelliti e quelli dei loro mandanti. Alcuni li ha forniti il pentito Nino Fiume, ex sicario della cosca De Stefano e uomo di fiducia del boss Giuseppe De Stefano tanto da accompagnarlo alle riunioni con i siciliani che si sono svolte a Milano e a Parghelia.
Nomi che, qualche anno fa, stavano per essere pronunciati durante un’udienza del processo “Meta” contro le cosche reggine. “È stata una cortesia a persone di Cosa nostra, perché il dottore aveva in mano il processo di Palermo”. In aula bunker era calato il gelo alle parole di Nino Fiume, uno dei collaboratori di giustizia più attendibili: “I Garonfalo non volevano che venisse toccato il giudice. A detta di Giuseppe De Stefano, secondo lui a sparare al dottore è stato…”.
“No, no, aspetti. La prego sui nomi di evitare in questa sede”. Il pm Lombardo aveva fatto in tempo a fermarlo. Così le indagini sono andate avanti fino al rinvenimento del fucile calibro 12 avvenuto l’altro giorno in provincia di Catania. Adesso il rischio è di toccare i fili dell’alta tensione. Il perché si percepisce sempre dalle parole del pentito Nino Fiume rileggendo i suoi verbali sugli esecutori materiali dell’attentato al giudice Scopelliti: “A detta di Giuseppe De Stefano, erano due calabresi. Non ho toccato questo argomento nel 2003 per cercare di non toccare le istituzioni”.
Mafie
Mafia, “ritrovato il fucile con cui fu ucciso il giudice Antonino Scopelliti, incaricato di sostenere l’accusa nel maxiprocesso”
Il rinvenimento è avvenuto in provincia di Catania. La notizia è stata data dal procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardierim nel corso dell’annuale commemorazione a Piale davanti alla stele dedicata al magistrato: "Un tassello importante". La Dda ritiene di essere a un passo dal capire se l’uccisione sia stata il primo capitolo della strategia stragista o, peggio ancora, la prima dimostrazione di forza utilizzata delle mafie per costringere lo Stato a sedersi al tavolo della “trattativa”
Un fucile calibro 12, ritenuto lo stesso che il 9 agosto 1991 ha ucciso il giudice Antonino Scopelliti nei pressi di Campo Calabro, è stato ritrovato a distanza di 27 anni dalla Dda di Reggio Calabria che continua a indagare, con la la squadra mobile e lo Sco, su chi siano i killer che ammazzarono il magistrato che da lì a poco avrebbe dovuto sostenere, in Cassazione, l’accusa nel maxiprocesso a Cosa Nostra.
La notizia è stata data dal procuratore Giovanni Bombardieri nel corso dell’annuale commemorazione a Piale davanti alla stele dedicata al giudice Scopelliti. Adesso saranno gli accertamenti tecnici a fornire al capo della Dda e ai due aggiunti Giuseppe Lombardo e Gaetano Paci la certezza che si tratti della stessa arma.
Il rinvenimento è avvenuto in provincia di Catania, in un terreno oggi di proprietà di persone estranee all’inchiesta e perciò non indagate. Un terreno che all’epoca, però, era nella disponibilità di un soggetto legato alle cosche siciliane e alle famiglie mafiose calabresi.
I pm sono abbottonatissimi su come si è arrivati al fucile ma la sensazione è che ci sia una gola profonda che possa avere indicato agli investigatori il luogo esatto in cui l’arma era nascosta. I riscontri raccolti dagli uomini del questore Raffaele Grassi e del capo della mobile Francesco Rattà hanno fatto il resto consentendo alla Dda di fare un salto di qualità all’inchiesta.
“Quella di oggi – sono state le parole di procuratore Bombardieri – è una cerimonia importante, sono passati tanti anni da quando un servitore dello Stato, un collega impegnato seriamente nel suo lavoro, è stato assassinato barbaramente, ed è un giorno ancora più importante perché possiamo dire che nelle indagini che la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria sta portando avanti sempre in relazione a quel fatto atroce, abbiamo raggiunto e aggiunto un tassello importante”.
“A seguito di un’attività mirata – ha sottolineato ancora il capo della Dda – riteniamo di aver rinvenuto e sequestrato l’arma con cui è stato assassinato il consigliere Scopelliti. Una serie di elementi ci inducono a ritenere che l’arma rinvenuta e sequestrata, peraltro nel territorio del catanese, sia quella utilizzata per l’omicidio. È un’attività della Dda in relazione alla quale però al momento non aggiungiamo altro. Ci sembrava doveroso dirlo oggi, è un sequestro dei giorni scorsi, per rispetto alla memoria del collega e della sua famiglia”.
Quel 9 agosto i killer spararono nella frazione Piale di Villa San Giovanni. Nel processo per l’attentato a Scopelliti, che si è celebrato anni fa a Reggio Calabria, furono tutti assolti. Ma i pm non hanno mai mollato e da tempo stanno incrociando i documenti dell’inchiesta sull’omicidio con quelli del processo “’Ndrangheta stragista” che è in corso a Reggio Calabria e che vede imputato anche il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano come mandante dell’attentato di Scilla in cui, nel 1994, morirono due ai carabinieri.
La Dda è a un passo dal capire se l’uccisione del giudice Scopelliti sia stata il primo capitolo della strategia stragista o, peggio ancora, la prima dimostrazione di forza utilizzata delle mafie, e non solo, per costringere lo Stato a sedersi al tavolo della “trattativa”. Anche se secretati, sulla sua scrivania del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ci sono già i nomi dei killer che hanno sparato al giudice Scopelliti e quelli dei loro mandanti. Alcuni li ha forniti il pentito Nino Fiume, ex sicario della cosca De Stefano e uomo di fiducia del boss Giuseppe De Stefano tanto da accompagnarlo alle riunioni con i siciliani che si sono svolte a Milano e a Parghelia.
Nomi che, qualche anno fa, stavano per essere pronunciati durante un’udienza del processo “Meta” contro le cosche reggine. “È stata una cortesia a persone di Cosa nostra, perché il dottore aveva in mano il processo di Palermo”. In aula bunker era calato il gelo alle parole di Nino Fiume, uno dei collaboratori di giustizia più attendibili: “I Garonfalo non volevano che venisse toccato il giudice. A detta di Giuseppe De Stefano, secondo lui a sparare al dottore è stato…”.
“No, no, aspetti. La prego sui nomi di evitare in questa sede”. Il pm Lombardo aveva fatto in tempo a fermarlo. Così le indagini sono andate avanti fino al rinvenimento del fucile calibro 12 avvenuto l’altro giorno in provincia di Catania. Adesso il rischio è di toccare i fili dell’alta tensione. Il perché si percepisce sempre dalle parole del pentito Nino Fiume rileggendo i suoi verbali sugli esecutori materiali dell’attentato al giudice Scopelliti: “A detta di Giuseppe De Stefano, erano due calabresi. Non ho toccato questo argomento nel 2003 per cercare di non toccare le istituzioni”.
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(Adnkronos) - Stefano Conti è un uomo libero. L'Adnkronos può rivelare che al processo a Panama City sono cadute tutte le accuse. Raggiunto al telefono, Andrea Di Giuseppe, il parlamentare di Fratelli d'Italia eletto nella Circoscrizione Centro e Nord America, festeggia il risultato raggiunto dopo oltre due anni: "Dieci minuti fa ho parlato con il padre, si è commosso alla notizia che Stefano era finalmente stato prosciolto. Ha passato oltre 400 giorni in una delle peggiori galere del mondo, un luogo che non si riesce neanche a immaginare, e senza nessuna condanna, ma solo per una carcerazione preventiva in attesa di un processo che sembrava non arrivare mai. Ma insieme alla Farnesina e all'ambasciata, ho fatto di tutto per fargli ridurre la misura cautelare e farlo stare in una condizione meno disumana. L'anno scorso siamo riusciti a fargli avere i domiciliari, oggi la notizia più bella. Una grande vittoria per il nostro Paese".
Stefano Conti è un trader brianzolo di 40 anni, che per oltre due anni è stato accusato di tratta di esseri umani a scopo sessuale. Rischiava una condanna fino a 30 anni di reclusione, nonostante le presunte vittime avessero ritrattato le accuse, sostenendo di aver subito pressioni dalla polizia panamense.
Conti ha anche pubblicato un libro intitolato 'Ora parlo io: 423 giorni nell'inferno di Panama', in cui racconta la sua esperienza nel carcere panamense e ribadisce la sua innocenza. Il libro è uscito a dicembre scorso, in attesa dell'inizio del processo.
Andrea Di Giuseppe ha partecipato alle udienze preliminari, "non per influire sul merito della vicenda", spiega all'Adnkronos, ma per fargli avere il giusto processo che qualunque essere umano merita. Ho coinvolto la comunità italiana, ho parlato con i politici panamensi, sono stato accanto a lui davanti al giudice, per far capire al sistema giudiziario che quell'uomo non era solo, ma aveva accanto a sé il suo Paese”.
Conti "rimarrà ancora a Panama fino al 4 aprile, per motivi burocratici, ma appena avrà tutti i documenti in ordine potrà tornare in Italia", aggiunge il deputato italiano. Che non ha finito quella che è diventata una sorta di missione. "Dopo aver aiutato a liberare i due italiani in Venezuela, e dopo il più famoso caso di Chico Forti, il prossimo per cui mi impegnerò è l'ingegner Maurizio Cocco, rinchiuso in Costa d’Avorio da oltre due anni. Ne sentirete parlare presto". Sì perché gli italiani rinchiusi all'estero sono circa duemila, "e molti di questi sono in stato di carcerazione preventiva. Dei conti di Montecristo dimenticati da tutti. Ma ora il nostro governo, grazie anche all'azione dei sottosegretari agli Esteri Silli e Cirielli, e ovviamente all'attivismo della premier Meloni, sta finalmente affrontando questi casi. Non sono più dei fantasmi, ma dei nostri connazionali che devono poter avere tutta l'assistenza legale, politica e umana che possiamo dargli. È solo l'inizio. L'Italia sta contando e pesando di più nel mondo", conclude Di Giuseppe. (Di Giorgio Rutelli)
(Adnkronos) - Stefano Conti è un uomo libero. L'Adnkronos può rivelare che al processo a Panama City sono cadute tutte le accuse. Raggiunto al telefono, Andrea Di Giuseppe, il parlamentare di Fratelli d'Italia eletto nella Circoscrizione Centro e Nord America, festeggia il risultato raggiunto dopo oltre due anni: "Dieci minuti fa ho parlato con il padre, si è commosso alla notizia che Stefano era finalmente stato prosciolto. Ha passato oltre 400 giorni in una delle peggiori galere del mondo, un luogo che non si riesce neanche a immaginare, e senza nessuna condanna, ma solo per una carcerazione preventiva in attesa di un processo che sembrava non arrivare mai. Ma insieme alla Farnesina e all'ambasciata, ho fatto di tutto per fargli ridurre la misura cautelare e farlo stare in una condizione meno disumana. L'anno scorso siamo riusciti a fargli avere i domiciliari, oggi la notizia più bella. Una grande vittoria per il nostro Paese".
Stefano Conti è un trader brianzolo di 40 anni, che per oltre due anni è stato accusato di tratta di esseri umani a scopo sessuale. Rischiava una condanna fino a 30 anni di reclusione, nonostante le presunte vittime avessero ritrattato le accuse, sostenendo di aver subito pressioni dalla polizia panamense.
Conti ha anche pubblicato un libro intitolato 'Ora parlo io: 423 giorni nell'inferno di Panama', in cui racconta la sua esperienza nel carcere panamense e ribadisce la sua innocenza. Il libro è uscito a dicembre scorso, in attesa dell'inizio del processo.
Andrea Di Giuseppe ha partecipato alle udienze preliminari, "non per influire sul merito della vicenda", spiega all'Adnkronos, ma per fargli avere il giusto processo che qualunque essere umano merita. Ho coinvolto la comunità italiana, ho parlato con i politici panamensi, sono stato accanto a lui davanti al giudice, per far capire al sistema giudiziario che quell'uomo non era solo, ma aveva accanto a sé il suo Paese”.
Conti "rimarrà ancora a Panama fino al 4 aprile, per motivi burocratici, ma appena avrà tutti i documenti in ordine potrà tornare in Italia", aggiunge il deputato italiano. Che non ha finito quella che è diventata una sorta di missione. "Dopo aver aiutato a liberare i due italiani in Venezuela, e dopo il più famoso caso di Chico Forti, il prossimo per cui mi impegnerò è l'ingegner Maurizio Cocco, rinchiuso in Costa d’Avorio da oltre due anni. Ne sentirete parlare presto". Sì perché gli italiani rinchiusi all'estero sono circa duemila, "e molti di questi sono in stato di carcerazione preventiva. Dei conti di Montecristo dimenticati da tutti. Ma ora il nostro governo, grazie anche all'azione dei sottosegretari agli Esteri Silli e Cirielli, e ovviamente all'attivismo della premier Meloni, sta finalmente affrontando questi casi. Non sono più dei fantasmi, ma dei nostri connazionali che devono poter avere tutta l'assistenza legale, politica e umana che possiamo dargli. È solo l'inizio. L'Italia sta contando e pesando di più nel mondo", conclude Di Giuseppe. (Di Giorgio Rutelli)
Roma, 6 mar. (Adnkronos) - "Più che le conclusioni del Consiglio europeo sembrano un bollettino di guerra, con i nostri governanti che, in un clima di ubriacatura collettiva, programmano una spesa straordinaria di miliardi su miliardi per armi, missili e munizioni. E la premier Meloni cosa dice? 'Riarmo non è la parola adatta' per questo piano. Si preoccupa della forma e di come ingannare i cittadini. Ma i cittadini non sono stupidi! Giorgia Meloni come lo vuoi chiamare questo folle programma che, anziché offrire soluzioni ai bisogni concreti di famiglie e imprese, affossa l’Europa della giustizia e della civiltà giuridica per progettare l’Europa della guerra?". Lo scrive Giuseppe Conte sui social.
"I fatti sono chiari: dopo 2 anni e mezzo di spese, disastri e fallimenti in Ucraina anziché chiedere scusa agli italiani, Meloni ha chiesto a Von der Leyen di investire cifre folli in armi e spese militari dopo aver firmato sulla nostra testa a Bruxelles vincoli e tagli sugli investimenti che ci servono davvero su sanità, energia, carovita, industria e lavoro. Potremmo trovarci a spendere oltre 30 miliardi aggiuntivi sulle armi mentre ne mettiamo 3 scarsi sul carobollette".
"Stiamo vivendo pagine davvero buie per l’Europa. I nostri governanti, dopo avere fallito con la strategia dell’escalation militare con la Russia, non hanno la dignità di ravvedersi, anzi rilanciano la propaganda bellica. La conclusione è che il blu di una bandiera di pace scolora nel verde militare. Dai 209 miliardi che noi abbiamo riportato in Italia dall'Europa per aziende, lavoro, infrastrutture, scuole e asili nido, passiamo a montagne di soldi destinati alle armi".
Roma, 6 mar. (Adnkronos) - "Much appreciated". Lo scrive Elon Musk su X commentando un post in cui si riporta la posizione della Lega e di Matteo Salvini sul ddl Spazio e Starlink. Anche il referente in Italia del patron di Tesla, Andrea Stroppa, ringrazia via social Salvini: "Grazie al vice PdC Matteo Salvini per aver preso posizione pubblicamente".
Roma, 6 mar. (Adnkronos) - Gianfranco Librandi, presidente del movimento politico “L’Italia c’è”, ha smentito categoricamente le recenti affermazioni giornalistiche riguardanti una presunta “coalizione di volenterosi” per il finanziamento di Forza Italia. Librandi ha dichiarato: “Sono tutte fantasie del giornalista. Smentisco assolutamente di aver parlato di una coalizione di volenterosi che dovrebbero contribuire al finanziamento del partito”.
Roma, 6 mar. (Adnkronos) - "Il vergognoso oltraggio del Museo della Shoah di Roma è l'ennesimo episodio di un sentimento antisemita che purtroppo sta riaffiorando. È gravissima l'offesa alla comunità ebraica ed è gravissima l'offesa alla centralità della persona umana e all'amicizia tra i popoli. Compito di ognuno deve essere quello di prendere decisamente le distanze da questi vergognosi atti, purtroppo sempre più frequenti in ambienti della sinistra radicale infiltrata da estremisti islamici , che offendono la memoria storica e le vittime della Shoah. Esprimo la mia più sentita solidarietà all'intera Comunità ebraica con l'auspicio che tali autentici delinquenti razzisti antisemiti siano immediatamente assicurati alla giustizia ". Lo ha dichiarato Edmondo Cirielli, Vice Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.
Roma, 6 mar. (Adnkronos) - "Meloni ha perso un'occasione rispetto a due mesi fa quando si diceva che sarà il ponte tra l'America di Trump e l'Europa e invece Trump parla con Macron, con Starmer e lo farà con Merz. Meloni è rimasta un po' spiazzata. Le consiglio di non essere timida in Europa perchè se pensa di sistemare i dazi un tete a tete con Trump, quello la disintegra. Meloni deve stare con l'Europa e Schlein quando le dice di non stare nel mezzo tra America e Europa è perchè nel mezzo c'è l'Oceano e si affoga". Lo dice Matteo Renzi a Diritto e Rovescio su Rete4.