A scadenze periodiche le firme di Repubblica scaricano il loro livore nei confronti del direttore de il Fatto Quotidiano, reo di fare le pulci alla presunta sacralità loro e della loro testata; quali istituzioni fisiche e cartacee depositarie della “giusta linea”.
Dieci anni fa aveva iniziato tale sfida Giuseppe D’Avanzo, aggirandosi dietro il virtuale convento dei Carmelitani Scalzi giornalisti; e, parlandone da vivo, quella non fu certo la sua migliore performance argomentativa (l’esibizione di una presunta “pistola fumante” di vacanze palermitane che Travaglio avrebbe avuto in dono da Michele Ajello – costruttore locale limitrofo alla Mafia – e poi risultate interamente a carico dell’allora vacanziero). Anzi, una figuraccia.
Oggi ci riprova con ancora maggiore loffiezza Carlo Bonini, sbandierando l’esistenza di un ipotetico “Metodo Travaglio” che consisterebbe nel mettere a fuoco uno specifico fatto accertato e costruirci sopra un ragionamento. Insomma, quello che fa (dovrebbe fare) il giornalismo d’indagine.
Semmai sarebbe da approfondire come mai gli attacchi di queste “firme” siano così imbarazzanti per la loro succitata loffiezza. E il motivo è che costoro non sono in condizione di sparare contro al Travaglio l’addebito che si intuisce dietro tali farfugliamenti: applicare con determinazione l’insegnamento del proprio maestro. Quell’Indro Montanelli che teorizzava come tratto distintivo ed essenza del mestiere “andare a letto con i lettori”. A sua volta dichiaratamente ispirato al criterio-guida del giornalista americano John Gunther (1901-1970) il quale propugnava un approccio “popolare e semplificatorio” alla notizia, in modo da essere sempre in sintonia con il proprio pubblico.
Insomma, quello che oggi i Bonini vorrebbero imputare al proprio avversario è la colpa di parteggiare. Ma non possono farlo proprio perché scrivono su quello che nei decenni scorsi è stato il più grande partito italiano: la Repubblica.
Difatti, negli anni Ottanta si diceva che la politica italiana aveva i propri punti di riferimento in due testate di informazione: quella di Eugenio Scalfari (che aggregava il conglomerato dal Partito Repubblicano al Pci; o – come dicevano i ragazzacci de il Manifesto – pretendeva di “far fare ai comunisti le politiche di La Malfa”) e quella di Indro Montanelli (dai ceti benpensanti alla Maggioranza Silenziosa).
Poi l’evoluzione delle cose e dei tempi ha spazzato via entrambi i soggetti: Montanelli spiazzato dallo spostamento della borghesia da posizioni difensive a quelle avventuriste e colonizzatrici berlusconiane; il clan scalfariano messo fuori gioco dall’indebolimento del padre nobile e dall’attuale direzione, nel pallone a fronte delle trasformazioni in atto nella politica nazionale e all’inseguimento di impossibili riprese renziane.
Sicché fa un po’ ridere leggere ora l’acchiappanuvole Bonini quando imputa a Travaglio la colpa di coltivare il proprio target e tenere in piedi il proprio giornale, solo perché il cosiddetto “giornalone” del Bonini non riesce più a fare altrettanto. E le sue firme giocano la partita della polemica zavorrate dalle contraddizioni che attanagliano la loro parte. Da qui un risentimento che ne obnubila la qualità dell’argomentazione.
Solo un ricordo di ben altro personaggio, rispetto a questi polemisti maldestri: Luciano Gallino. Quando mi mandò a dire, poco prima della sua dipartita, che condivideva un mio post critico contro la svolta anti-lavoratori renziana, sostenuta da la Repubblica. Su cui continuava a scrivere con un crescente imbarazzo.