La cosa più sorprendente dalla crisi finanziaria turca è che c’è poco di cui sorprendersi. L’avvitamento delle ultime ore è il risultato dell’accumularsi, mese dopo mese, se non anno dopo anno, di elementi che hanno composto una miscela esplosiva. Approcci economici in sfregio alla logica, distorsione a fini politici delle politiche monetarie, colonizzazione familistica dei gangli vitali dell’amministrazione economica a cui si è aggiunto negli ultimi tempi un contesto finanziario internazionale meno favorevole. Così per far precipitare la situazione, è bastata la scintilla di attriti diplomatici e commerciali con gli USA, e di un Donald Trump che non ha esitato a soffiare sul fuoco raddoppiando i dazi su acciaio e alluminio. La crisi rischia ora di avere conseguenze che vanno ben al di là del Bosforo. In scia alla lira turca hanno perso valore le valute di tutti i paesi emergenti, a cominciare dal peso argentino. La banca centrale europea lascia trapelare una certa preoccupazione per i contraccolpi che potrebbero colpire le banche europee. Le banche internazionali sono esposte verso la Turchia per 265 miliardi di dollari. In Europa le banche con più asset turchi in portafoglio sono quelle spagnole (83 miliardi di dollari), seguite dalle francesi (38 mld) e dalle italiane (17 mld) . Tra gli istituti più sotto pressione la spagnola BBVA, la francese BNP e Unicredit, anche in virtù della partecipazione del 41% nella banca turca Yapi Kredi.
Facciamo un breve passo indietro. Dopo qualche anno di rallentamento l’economia turca è tornata a viaggiare a ritmi sostenuti (oltre il 7% nel 2017). Un’accelerazione spinta anche da politiche monetarie pro –cicliche ben oltre il livello della ragionevolezza.
La crescita di Ankara ha infatti da sempre un elemento di vulnerabilità potenzialmente devastante. Governo, banche e aziende sono fortemente indebitate in dollari o euro, nel complesso per un valore pari al 70% del Pil. Più di Argentina (65%), Sud Africa (28%) o Brasile (28%). Il paese ha quindi bisogno di un continuo afflusso di moneta estera “pregiata”. Le sole società industriali hanno debiti per 337 miliardi di dollari, di cui circa 70 mld arriveranno a scadenza nel giro di un anno. Quando la valuta locale perde valore rispetto a quella americana , questi creditori che guadagnano in lire ma devono ripagare debiti ed interessi in dollari la vita si fa difficile. Un beneficio da questa situazione potrebbe arrivare solo per le imprese turche molto focalizzate sull’export. Se si considera che da inizio anno la lira turca ha perso il 45% del suo valore ci si può fare un’idea di quanto la sofferenza finanziaria delle aziende locali sia intensa. La Borsa di Istanbul con il suo meno 33% da inizio anno, è solo uno dei termometri che fotografa lo stato delle cose. Da inizio 2018 il costo dei credit default swap (strumenti finanziari che in sostanza assicurano un investitore in caso di default del titolo su cui sono emessi) sul debito turco è quadruplicato superando quota 400. Il rendimento dei titoli di Stato decennali, che solo un mese fa oscillava intorno al 12%, è schizzato in pochi giorni al 20%.
Una moneta svalutata inoltre genera inflazione poiché tutto quanto viene acquistato dall’estero costa di più e di conseguenza anche i prezzi di altri beni tendono ad allinearsi. Oggi l’inflazione turca è vicina al 16% a fronte di un valore ritenuto desiderabile del 5% circa. Esiste un modo in cui solitamente un paese reagisce a queste situazioni: alzare i tassi di interesse praticati dalla banca centrale. Semplificando un poco, in questo modo diminuisce la quantità di moneta disponibile sul mercato (farsi prestare soldi per un mutuo o un investimento costa di più) e quindi il valore della valuta cresce. Il rovescio della medaglia è che queste strette monetarie frenano la crescita economica. Nella situazione turca non sembrano però esserci molti dubbi su quale sarebbe la strada da seguire. L’economia sta crescendo, quindi un eventuale rallentamento non sarebbe così doloroso, mentre inflazione e cambio stanno finendo fuori controllo. Il problema è che la banca centrale turca non agisce più in base a logiche strettamente economiche. È infatti fortemente influenzata dal presidente Recep Tayyip Erdogan a cui, tra l’altro, spetta direttamente la nomina del governatore.
Da tempo Erdogan propina una teoria del complotto secondo cui un’occulta congrega di investitori esteri, la cosiddetta “lobby dei tassi”, sarebbe all’opera per azzoppare la crescita economica turca attraverso il rialzo degli interessi. Nell’ambito di questa teoria trova posto anche l’improbabile convinzione che tassi alti producano inflazione. Il contrario di quanto insegnano le leggi dell’economia. La banca centrale è quindi riottosa ad alzare i tassi e da anni stampa moneta a rotto di collo per fornire carburante a un motore economico ormai sull’orlo della fusione. Questa gestione della politica monetaria ispirata a principi molto alternativi ha retto finché il contesto economico internazionale era favorevole e la Turchia risultava un paese attraente per capitali in cerca di rendimenti. Quando la Federal Reserve, la banca centrale statunitense, ha sospeso l’acquisto di titoli e ha iniziato ad alzare i tassi USA, la festa è finita. Un dollaro più forte tende infatti a “risucchiare” capitali verso gli asset a stelle e strisce che, a fronte di un rischio di investimento basso, tornano ad offrire rendimenti interessanti.
Oggi il ministro delle Finanze turco Berat Albayark, genero del presidente Erdogan, ha affermato che il governo ribilancerà il suo approccio economico che non sarà più incentrato solo sulla crescita. Ma il triumvirato che presiede alle gestione dell’economia turca (il presidente Erdogan, suo genero e il governatore della banca centrale) ha ormai perso credibilità agli occhi dei mercati. La situazione turca non è lontana da un punto di non ritorno. Una intervento deciso e rapido sui tassi, la mobilitazione delle riserve in valuta estera della banca centrale (poco meno di 100 miliardi di dollari a fine luglio) potrebbero forse ancora salvare la situazione. Ma il tempo vola e cambi di rotta non sembrano in vista. Oggi Erdogan ha dichiarato “è in corso campagna internazionale contro di noi, non perderemo questa guerra economica, abbiamo il nostro Allah” e ha invitato i suoi concittadine a convertire monete estere e oro in valuta locale. Nel frattempo ha cercato una sponda con Mosca e ha parlato della crisi con Vladimir Putin. Intanto prendono forma ipotesi inquietanti come restrizioni ai movimenti di capitali e richieste di aiuto al Fondo monetario internazionale. Una via crucis vista in molti scenari di crisi sovrane. Per sapere come andrà a finire non bisognerà probabilmente attendere molto.