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Harley Davidson si sposta in Europa. Un bel risultato dei dazi di Trump

Saranno gli effetti della scomparsa delle ideologie, saranno le conseguenze della globalizzazione. Sarà qualcosa che a me personalmente sfugge e che più che altro appare come il trionfo della superficialità e dell’ignoranza sulla conoscenza e la consapevolezza. Però, vedere il Presidente degli Stati Uniti – il capo del paese della Dichiarazione d’Indipendenza e di James Madison – imporre dazi doganali come un qualsiasi Giorgio III, fa una certa impressione. Il mondo certamente s’è rovesciato: i partiti di sinistra dimenticano il lavoro, distruggono il welfare e affermano i principi del mercato, proteggono gli oligopoli industriali e agevolano la grande finanza. La destra liberale una volta solo «ordine e legge», per parte sua, si trasforma in agenzia d’affari, riduce le pene e depenalizza, strizza l’occhio ai populismi, persegue lo smantellamento sistematico delle pubbliche istituzioni, in nome di un mercatismo che, poi sul piano economico, disattende completamente. Perché, quindi, stupirsi se il 45° Presidente degli Stati Uniti, nel perseguimento di un suo personalissimo e votatissimo progetto politico tutta pancia e poca testa – con l’apparente scopo di salvare l’industria americana – finisce per distruggere un (ma non l’unico) simbolo americano dell’industria motociclistica, obbligando la Harley Davidson a spostare la produzione in Europa, proprio a causa dei dazi in entrata decretati dal governo Usa? Impredicibilità dei fini, si potrebbe dire. Ma non è vero. Sicuramente, antitesi dei risultati rispetto agli obiettivi, frutto di una valutazione superficiale. E comicità della politica.

Appunto la notizia, tra le tante, è che – in seguito alle ritorsioni dell’Unione Europea in risposta ai nuovi dazi introdotti dall’amministrazione Trump su alcune merci europee – la Harley Davidson sposterà una parte della sua produzione da Milwaukee (Wi) a qualche sito europeo, meglio se al livello più basso d’imposizione fiscale. Infatti, per poter mantenere alte le sue vendite in Europa e non pagare un dazio di importazione del 40%, Harley ha bisogno di produrre nel Vecchio Continente, sicché, come si diceva, anche questa volta «il piffero di montagna» che voleva suonare la musica dell’America first, alla fine rischia di andarsene con le pive nel sacco della perdita di Pil e soprattutto del calo di occupazione a casa sua, proprio per un prodotto che è da sempre una delle maggiori bandiere del Made in Usa all’estero. Qualcuno forse qui da noi si fregherà le mani, i prezzi delle Road Glide o delle Softail potrebbero perfino scendere. Altri piangeranno. Certo l’industria motociclistica italiana non potrà – come spesso è accaduto – confidare solo negli aiuti governativi e dovrà ancor più rimboccarsi le maniche. Ma in ogni caso è un brutto momento, quando le conseguenze obbligate delle decisioni della politica sono scelte aziendali palesemente contro la natura e la storia delle imprese.

A Period of Transition (Van Morrison)? Adda passà ‘a nuttata? Anni di generale sbandamento del mondo, che presto rientrerà, con le idee più chiare e obiettivi più certi? Tutti ce lo auguriamo, anche se i segnali che si susseguono ogni giorno non sono dei migliori. Certi auspici meglio formularli d’estate quando i lettori sono pochi.

Resta che si è creato un pessimo corto circuito: informazione-ricerca del consenso politico-decisioni politiche, dal quale facciamo fatica ad uscirne. I giornali sono pieni di fakes e fakes di fakes, nel migliore dei casi affermazioni superficiali presentate come verità incontrovertibili per interessi di parte; notizie (tanto più sono infondate) che vengono facilmente assorbite da un’opinione pubblica incentivata a non pensare, a non conoscere, a non scegliere secondo gli interessi del benessere collettivo. Se è vero che non si distribuiscono pasti gratuiti in economia, prima dell’auspicata risalita, verosimilmente dovremo trangugiare qualche altro boccone amaro. Pazienza. L’aggiunta di confusione che la politica mondiale sta sommando alla mancanza di certezze condivise – dal Mediterraneo e dall’Africa, alla Casa Bianca, dalla Cina al Nord Europa, dalla Russia al Giappone e all’Australia – ci preoccupa, ma non ci fa perdere ogni speranza. In fondo, dipende da noi, da ognuno di noi, rifiutare il governo dell’ignoranza e del trionfo degli interessi di breve periodo.