La sorella del magistrato ucciso da Cosa nostra è la donna che nel 2006 si candidò contro Totò Cuffaro, incarnando quella che sembrava la più perfetta delle rivoluzioni. Slogan, treni speciali e geniali sms diffusi sui cellulari: fu una campagna elettorale virale prima dei social network che mise insieme no global e democristiani. Nei quartieri popolari la gente chiedeva a Rita lavoro ma lei rispondeva: "Sono promesse degli altri. Io vi prometto rispetto". Perse le elezioni ma formò la prima generazione di siciliani consapevoli del post stragi
Curriti, curriti, cu’ Rita. Nel 2006 i social network ancora non esistevano, ma quello slogan inviato via sms riuscì comunque a diventare virale. Era tipo il suono di un tamburo. Una specie di chiamata alle armi laica che nella primavera di dodici anni fa attraversava l’Italia comparendo sui cellulari di tutti i maggiorenni nati in Sicilia. E che in Sicilia tornarono: alcuni per qualche giorno, altri per tutta la campagna elettorale. Molti arrivarono con un treno speciale ribattezzato sempre con il suo nome: Rita Express, si chiamava. Quel treno ha creato la prima generazione di siciliani consapevoli del post stragi, ma questo all’epoca nessuno poteva prevederlo. Quel treno nel 2006 serviva a riportare sull’isola i ragazzi emigrati per studiare o lavorare làssopra, cioè al nord, il profondo e lontanissimo nord. Riportarli in Sicilia a votare e a scegliere: da una parte c’era Totò Cuffaro, il Vasa Vasa dei cannoli e del favoreggiamento alla mafia; dall’altra c’era lei, la sorella di Paolo Borsellino che aveva accettato di candidarsi a presidente della Regione, spinta dal furore della rinascente società civile ma mal tollerata dai leader di quella che doveva essere la sua coalizione, il centrosinistra.
“Cu-ffaro no, Cu- Rita sì“, recitava un altro slogan geniale che compariva in bianco e nero sugli schermi dei cellulari di allora. Sembrava la rivoluzione perfetta: era antimafia quanto l’antimafia era ancora in salute e non infiltrata da lobby e imposture; era fuori dai partiti quando gli antipartiti di professione ancora non esistevano; era antisistema semplicemente perché il sistema lo avrebbe scardinato già solo da un punto di vista simbolico. Bastava il cognome. Era una rivoluzione pura e pulita. Ma in Sicilia nessuna storia del genere ha un lieto fine. Non può averlo. Non prima di alcune decine di anni, almeno. Rita perse. E di tanto. Trecentomila voti e dodici punti percentuali di distacco spiegarono al Paese da che parte stava la Sicilia. E che nel bipolarismo Barabba – Gesù, il primo continuava sempre a stravincere. Dovunque, ma soprattutto in Sicilia, isola infame. La sera della sconfitta al comitato elettorale piansero in molti, tutti molto giovani.
Talmente giovani da pensare, per qualche istante, che il 2006 fosse davvero l’anno buono. Silvio Berlusconi aveva perso le elezioni e l’11 aprile, la notte delle politiche, era stato arrestato Bernardo Provenzano. La candidatura di Rita Borsellino arrivava immediatamente dopo. Fino al 19 luglio del 1992 aveva vissuto lontano dalla vita pubblica. Poi, quando ammazzarono suo fratello, cominciò a girare le scuole d’Italia, s’impegnò nell’Arci, divenne esponente di punta di Libera. E da lì, da quel mondo fatto di assemblee d’istituto e marce antimafia giunte fin sotto casa dei boss, che spuntò il suo nome. I partiti di centrosinistra volevano candidare Pippo Baudo. Le persone di centrosinistra volevano votare Rita Borsellino. Anche Pippo Baudo. “Ci vorrebbe uno Sciascia del 2000“, disse Francesco Rutelli, con un inelegante riferimento alla polemica sui professionisti dell’antimafia che contrappose l’autore de Il Giorno della Civetta e il magistrato assassinato in via d’Amelio. Contro Cuffaro, infatti, la Margherita propose Ferdinando Latteri, un rettore che stava con Forza Italia e che però venne sonoramente bocciato dalle primarie. A Rutelli non piacque: e sull’isola non si fece mai vedere in campagna elettorale. Non fu il solo.
In effetti, più dei Cuffaro o dei Berlusconi, i veri nemici di Rita sono sempre stati i pezzi grossi della coalizione che avrebbero dovuto sostenerla: più che candidarla ne subivano l’investitura da parte dei loro stessi elettori. Fu in quei giorni, probabilmente, che la spaccatura tra la sinistra e la sua base si fece incolmabile. In Sicilia, ma non solo. “È riuscita a diventare a sessant’anni la Giovanna d’Arco, argentea ma salda, bella e gentile, di tutta la sinistra. Tutta: dai rifondaroli ai verdi movimentisti, dai comunisti cossuttiani ai diessini (ad eccezione di Vladimiro Crisafulli, il potente e discusso capo del partito di Enna, che ha storto un po’ la bocca) fino ai no global“, scrisse di lei Gian Antonio Stella in Avanti Popolo.
Nata nel quartiere popolare Kalsa, erede di una dinastia di farmacisti e sorella di un magistrato rivendicato per anni dalla destra più estrema (“Vergogna – diceva lei – è vero che giovanissimo era segretario del Fuan ma mio fratello rifiutava l’etichetta di destra da vivo, figuratevi da morto”), la Giovanna D’Arco della sinistra siciliana riusciva a infilarsi là dove i leader nazionali non avevano mai neanche tentato di fare. Con quei quei modi british, eleganti e misurati che solo certe signore della borghesia siciliana sanno avere, andava nei quartieri popolari e non baciava nessuno. Niente strofinamenti di guance ma solo dignitosissime strette di mano. “Travaglio ci devi dare, travaglio“, le urlavano chiedendo “lavoro” nella lingua locale, l’unica conosciuta ancora oggi in ampie porzioni di isola. Ma lei niente: “Io non vi prometto la casa, io non vi prometto il lavoro, io non vi prometto l’acqua. Queste sono promesse che fanno gli altri. Io vi prometto rispetto“, diceva. Rispetto? E chi l’aveva visto mai in Sicilia un politico che in campagna elettorale non promette il posto nella cooperativa comunale? Che alla vigilia delle elezioni non assicura l’acqua corrente tutti i giorni tutto il giorno? Che non assegnava seduta stante case popolari su case popolari, a te con tre stanze, a lui con quattro? Chi l’aveva mai visto in Sicilia un politico così, un politico normale?
E infatti due anni dopo, quando Cuffaro fu costretto alle dimissioni dopo la prima condanna, da Roma misero il veto: niente Rita, si candida Anna Finocchiaro. Era una di quelle alchimie di partito incomprensibili per chiunque: la Finocchiaro doveva straperdere contro Raffaele Lombardo, che l’anno dopo avrebbe sfasciato il centrodestra alleandosi con il Pd. E Rita? Accettò di fare da seconda, creò una sua lista – Un’Altra storia, si chiamava – prima presentata in pompa magna e poi dimenticata alle urne. Si ricordarono di lei qualche mese dopo, quando 230mila voti la spinsero verso l’europarlamento. Tre anni a Bruxelles, duemilaquattrocento chilometri da Palermo. Dove Pierluigi Bersani la voleva riportare da sindaco: doveva essere lei a correre per il Pd alle primarie del centrosinistra per le amministrative. Sembrava una formalità, visto che il suo supporter numero uno era l’eterno Leoluca Orlando. “Votate il sindaco Borsorlando“, diceva nei mercati e per le strade. Fu poco convincente. E Rita perse di nuovo. Questa volta di poco: 130 voti incoronarono l’outsider Fabrizio Ferrandelli (che pure nel 2006 stava con lei) tra accuse di brogli e ricorsi. Orlando colse l’attimo e si ricandidò nonostante avesse promesso di non farlo “pure in aramaico“: vinse, rivinse ed è ancora lì. Rita, invece, no. Si è ritirata in via d’Amelio, al civico 21, dove ha continuato a fare quello che faceva dal 19 luglio del 1992: raccontare ai bambini chi era Paolo Borsellino. Il fratello martire laico per il quale lei aveva vietato l’uso della parola “eroe“. “Lui si sentiva una persona normale e così io lo racconto a chi me ne chiede”. Anche Rita si sentiva una persona normale. In questo Paese non c’è niente di più rivoluzionario.
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