Tra le tante materie afferenti i beni culturali, quella relativa ai prestiti delle opere d’arte sotto tutela di Stato non ha ancora dignità di regolamento chiaro, effettivo, valido per tutti. O meglio, alcune regole esistono, ma il loro rispetto non è sempre certo. La storia recente è ricca di casi in cui si è molto discusso sull’opportunità di prestiti (soprattutto all’estero) di grandi capolavori dell’arte italiana, a causa di un’evidente vacatio legis e di un altrettanto palese mancata volontà di regolarizzare una questione che, invece, è di primaria importanza per la tutela delle opere d’arte.
L’ultimo caso riguarda La Visitazione, il capolavoro di Pontormo di proprietà della pieve dei Santi Michele e Francesco di Carmignano, in provincia di Prato (dove la si può ammirare con ingresso gratuito), ma che dall’8 maggio scorso (e fino al prossimo 23 agosto) si trova in mostra nella Sala delle Nicchie della Galleria Palatina, a Palazzo Pitti di Firenze (dove si paga un biglietto di 16 euro), prima di partire per una lunga trasferta americana durante la quale la tavola sarà esposta prima alla Pierpont Morgan Library di New York (dal 7 settembre al 6 gennaio 2019) e poi al Jean Paul Getty Museum di Los Angeles (dal 5 febbraio al 28 aprile 2019).
Per La Visitazione di Pontormo – vero picco d’eccellenza dell’arte occidentale – sarà la quarta “trasferta” fuori dalla Pieve di Carmignano in quattro anni: dopo la partecipazione a due mostre di Palazzo Strozzi di Firenze (nel 2014 dedicata alla “maniera moderna” e nel 2017 in occasione dell’esposizione delle opere di Bill Viola), ora è in bella mostra a Palazzo Pitti e poi andrà oltre oceano.
“L’esposizione americana – dice Fabrizio Buricchi che per conto della parrocchia carmignanese si sta occupando dell’organizzazione del prestito in Usa dell’opera – insieme a vari prestiti e a un crowfunding già iniziato, servirà per raggiungere l’obiettivo minimo di racimolare un milione di euro sufficienti per i primi interventi alla Pieve (costruita nel 1330 su un terreno donato a San Francesco più di un secolo prima che era giunto a predicare in questa zona) e per edificare il necessario Museo della Visitazione, dove l’opera sarebbe maggiormente valorizzata. La decisione di concedere l’opera per il prestito americano – aggiunge Buricchi – in realtà nasce dal fatto che siamo alla disperazione: nel tempo abbiamo contattato fondazioni bancarie, enti vari, istituzioni pubbliche e private affinché intervenissero per restaurare la Pieve, ma inutilmente. Così abbiamo siamo stati costretti a prendere una drastica decisione”.
Quindi non sono certo motivazioni d’ordine culturale a spingere verso il prestito internazionale, bensì sic et simpliciter l’impellente bisogno di denaro per finanziare restauri non più procrastinabili e per ovviare al disinteresse degli attori di zona. Nell’ambiente dei beni culturali c’è già chi protesta e lo fa senza troppi giri di parole: il restauratore Giovanni Cabras (già direttore del laboratorio restauri di Palazzo Pitti fino al 2001), in un post su Facebook afferma che “è raccapricciante che lo Stato italiano non provveda agli stanziamenti necessari alla manutenzione dei propri edifici storici e che per far cassa si serva dei nostri capolavori sacrificandoli in viaggi per il mondo”.
A dire il vero né l’opera né la parrocchia sono dello Stato, ma trattandosi di un’opera sottoposta a vincolo, attraverso l’avvallo del funzionario di zona del Mibac responsabile della tutela delle opere del territorio (quindi non musealizzate), lo Stato gioca un ruolo fondamentale nella vicenda del prestito dell’opera nel tour americano.
Anche Roberto Boddi, già Direttore del dipartimento di climatologia e conservazione preventiva dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, in un altro post conferma che “le opere su tavola possono subire danni nel trasporto”, salvo poi spiegare che esistono sistemi – costosissimi – per ovviare alle microvariazioni dimensionali del supporto ligneo che avvengono quando una tavola viene sottoposta a una variazione di condizioni climatiche.
Ma perché può avvenire tutto ciò? La risposta va ricercata nella carenza di una legislazione chiara e netta sulla materia. Durante l’ultimo quindicennio sono stati numerosi i casi di prestiti di opere di indiscutibile valore che hanno provocato polemiche. Uno dei principali avvenne nel 2006 quando l’allora Ministro della cultura, Francesco Rutelli, decise di inviare a Tokyo – nel marzo del 2007 – l’Annunciazione di Leonardo da Vinci degli Uffizi. Quasi si scatenò il finimondo anche perché l’unica regola tuttora vigente – l’articolo 66 del Codice dei beni culturali varato nel 2001 dal ministro Urbani – alla lettera “b” del comma 2 affermava che non possono uscire neanche temporaneamente dal territorio della Repubblica “i beni che costituiscono il fondo principale di una determinata ed organica sezione di un museo, pinacoteca, galleria, archivio o biblioteca o di una collezione artistica o bibliografica”. Non ci vuol molto a comprendere che l’invio in Giappone del capolavoro leonardiano non rispettava la legge.
Tutto il bailamme scatenato ebbe due conseguenze: la prima fu l’istituzione, nell’agosto del 2006, di una Commissione Prestiti di alto profilo (composta da Andrea Emiliani, Cristina Acidini, Carlo Giantomassi, Paolo Liverani, Massimo Montella, Gianni Romano Michele Trimarchi e Massimo Vitta Zelman) che varò le linee guida sulla materia basate su quattro principi: normalità (prestiti finalizzati all’accrescimento dell’offerta culturale), sostenibilità (lo scambio e il prestito tra musei deve risultare sostenibile e benefico), qualità (accertamento della coerenza e della qualità culturale della manifestazione per cui il prestito è richiesto) e ricaduta (accertamento del ventaglio di benefici materiali, immateriali, culturali e identitari che derivano all’istituto proprietario, al suo territorio e al Paese dall’inclusione dell’opera nella mostra).
La seconda conseguenza fu la nascita – pressoché spontanea – di una sorta di black list dei “capolavori imprestabili“, cioè degli inamovibili, in rispetto del succitato comma 2, lettera “b” dell’articolo 66 dei Codice dei beni culturali. La Direzione degli Uffizi la varò nell’autunno del 2007 e poco dopo la soprintendente Acidini la condivise col Mibac. Questi, tuttavia, non chiese agli altri grandi musei italiani di fare altrettanto. Infatti il fenomeno dei prestiti di opere d’arte non si arrestò, né si autoregolamentò, ma si mantenne a livelli estremi. Qualche numero? Nel 2014 le opere movimentate in Italia furono 11399 mentre quelle per l’estero furono 2675: l’anno successivo i numeri rispettivi furono 11848 e 2640.
Vari dipinti di Tiziano (come la Venere di Urbino che nel 2008 fu spedita in Giappone e nel 2013 a Venezia, con l’ultimo tratto del viaggio tra gli Uffizi e Palazzo Ducale coperto addirittura a bordo di un vaporetto), così come di Caravaggio (Il sacrificio di Isacco degli Uffizi è appena rientrato da Forlì e a detta del Direttore Eike Schmidt non sarà più prestato, così come l’Amorino dormiente da Palazzo Pitti andò esposto a Lampedusa in ricordo del piccolo Aylan nel 2016, e così come Il ragazzo morso dal ramarro della Fondazione Longhi è tuttora spesso “in trasferta”), di Botticelli, di Raffaello etc.. hanno viaggiato, facendo la gioia dei visitatori delle mostre temporanee, ma privando i visitatori dei musei statali italiani di opere di capitale importanza. Ovviamente in mancanza di una legge precisa e che venga fatta rispettare, tutto ciò è possibile.
Ma si può andare oltre e parlare, addirittura, di “affitto di opere d’arte” dietro pagamento di un fee all’ente o museo prestatore. La pratica – diffusasi in seguito alla Riforma Franceschini – si è resa necessaria anche perché agli organizzatori di mostre temporanee non in musei, manca la possibilità della reciprocità, cioè dello scambio delle opere d’arte. E allora con i soldi si ovvia al problema. Si può essere più o meno d’accordo su questa nuova prassi, ma ciò che colpisce è di nuovo la mancanza di regole scritte, soprattutto di fronte all’istituzione dei nuovi musei statali dotati di autonomia che potrebbero agire in maniera sempre più disordinata fissando termini, regole e tariffe arbitrari.
Come dire che il patrimonio culturale, che dovrebbe esser protetto dall’articolo 9 della Costituzione, al contrario può diventare uno strumento commerciale che con le collaborazioni scientifiche tra enti e con la crescita culturale della Nazione non ha niente a che vedere. Ovviamente la speranza è che il nuovo Governo abbia la possibilità, una volta per tutte, di varare regole precise in questa delicatissima materia.