I capitali esteri se ne vanno e lo spread, inesorabile, sale. Che sia a balzi o a piccoli passi, come nell’ultima settimana, la direzione è sempre verso l’alto. In circa tre mesi il rendimento di un titolo decennale italiano è più che raddoppiato, collocandosi ormai sopra al 3%. La differenza di rendimento rispetto al corrispondente titolo tedesco (preso a riferimento in quanto considerato un investimento quasi senza rischio) è passato da 110 a circa 290 punti. Un trend tutto italiano. La differenza di rendimento tra Btp ed equivalenti titoli spagnoli, ha toccato quota 172 a favore di bond iberici, il gap più ampio dal 2011. In questi 3 mesi l’incremento degli interessi sui titoli spagnoli è risultato infatti irrisorio mentre quello italiano è stato notevole. In altre parole, in questo momento, il nostro Paese è il sorvegliato speciale sui mercati. A maggio il costo medio sul debito italiano (ossia l’interesse medio pagato dallo Stato sui titoli di tutte le durate) era di circa l’1%. Oggi siamo all’1,6%. Se si prova a traslare questa differenza sulle emissioni che sono in programma nel 2019, solo per rinnovare i titoli che arrivano a scadenza, circa 280 miliardi di euro, si scopre che dovremo spendere almeno 1,5 miliardi di euro in più in interessi, una sorta di tassa aggiuntiva che grava su tutti noi. Il conto naturalmente potrebbe essere più basso se i rendimenti italiani ricominciassero a scendere. Ma potrebbe essere ancora più salato se le cose dovessero peggiorare.
La verità è che in questo momento sui mercati si vendono più Btp di quanto se ne comprino e così l’equilibrio tra offerta e domanda si sposta su prezzi più bassi. Poiché la cedola pagata è fissa in valore assoluto, il rendimento in rapporto al prezzo del titolo sale. La fuga dai bond del nostro Paese si legge, oltre che nei prezzi, nei dati della Banca d’Italia. Lo scorso giugno i Btp hanno registrato una fuoriuscita di capitali esteri pari a 33 miliardi di euro che segue il rosso di 25 miliardi segnato in maggio. Sono cifre paragonabili ai movimenti registrati dopo il drammatico vertice di Deauville in Francia nel 2010 in cui Angela Merkel e Nicholas Sarkozy prospettarono la possibilità che gli investitori privati fossero chiamati a partecipare ai costi del salvataggio di paesi aderenti all’euro.
Come spiegano gli operatori, molti fondi che avevano “in pancia” quantità significative di titoli italiani, hanno visto improvvisamente esplodere il livello di rischio complessivo del proprio portafoglio. E così vendono per rientrare nei loro parametri, oppure, se progettavano di comprare, aspettano. Dallo scorso maggio il Tesoro è dovuto scendere in campo per comprare titoli sul mercato già 3 volte da maggio allo scopo di fornire liquidità ad un mercato altrimenti asfittico. Siamo arrivati al punto in cui analisti come quelli di Société Générale considerano i titoli di stato greci un’alternativa più sicura ai bond italiani. Atene sarà di nuovo, a tutti gli effetti, sui mercati dal 2019. Per ora l’acquisto di bond ellenici avviene solo tra banche. Nel frattempo però lo spread tra titoli a 5 anni italiani e greci si è ridotto dai 300 punti di marzo agli attuali 100 punti. In altri termini l’equivalente greco di un Btp quinquennale italiano paga solo l’1% in più di interessi. Gli analisti di Bank of America ritengono che l’attuale livello dello spread italiano non sia sostenibile nel lungo termine. E prefigurano due scenari. Il primo, nel caso di una legge di bilancio che non impatti sostanzialmente sul deficit, un ritrovato interesse verso i Btp e una discesa dello spread verso quota 170. Il secondo, nel caso di una finanziaria poco attenta alle casse pubbliche, una corsa del differenziale fino a 400 punti. Molti analisti concordano, infine, nel ritenere un rendimento del 3,5% sui decennali come lo spartiacque tra sostenibilità o meno del debito nel lungo termine.
A tenere la situazione per ora sotto controllo contribuisce la presenza sul mercato della Banca centrale europea, non tanto per l’entità quotidiana degli acquisti di Btp (alcune centinaia di milioni su un volume di scambi di 8 miliardi di euro al giorno in periodi normali), quanto da un punto di vista psicologico. A farlo notare è Angelo Drusiani, storico operatore del mercato obbligazionario e consulente di banca Albertini SYZ che aggiunge: “Quello che preoccupa i mercati è questo clima di campagna elettorale permanente che spinge in secondo piano i temi economici cruciali per il Paese. C’è la sensazione che le questioni economiche siano abbandonate a loro stesse e questo inevitabilmente rischia di ripercuotersi sulla crescita del Paese. E con un Pil fermo basta poco perché la situazione debitoria sfugga di mano”. “Il pericolo che vedo – mette in guardia Drusiani – è che una o due aste di Btp a dieci anni vadano male, con una domanda scarsa. Bankitalia potrebbe in qualche modo metterci una pezza ma il segnale sarebbe pessimo. Giocare contro i mercati è pericoloso – conclude Drusiani – vincere è difficilissimo e l’Italia ha davvero poche frecce al proprio arco”. L’amara realtà è che indebitarsi per una cifra pari a quasi una volta e mezza il proprio Pil, come ha fatto l’Italia nel corso degli anni, significa consegnarsi mani e piedi agli umori dei propri creditori.
Nella trincea più avanzata di questa battaglia ci sono le banche, che hanno in portafoglio bot e btp per 370 miliardi di euro e che non a caso nelle ultime settimane hanno molto sofferto in Borsa. La perdita del valore dei titoli incide sui bilanci, soprattutto attraverso i bond che non vengono classificati come da mantenere fino a scadenza. L’impatto sui bilanci significa per le banche la necessità di dirottare risorse verso il proprio rafforzamento patrimoniale. In prospettiva, quindi, anche meno disponibilità per i finanziamenti all’economia reale.
Il momento decisivo potrà essere già a settembre. A fine estate prenderà forma la legge di bilancio e le agenzie di rating si dovranno pronunciare sul Paese. Moody’s, in particolare, ha già annunciato che il giudizio sull’Italia verrà abbassato se saranno toccate in modo significativo riforme come la Fornero. Una riduzione che ancora non farebbe precipitare l’Italia fuori dalla categoria “investment grade”, ma che spargerebbe ulteriore diffidenza tra gli investitori. Secondo diversi osservatori le agenzie di rating guardano attentamente anche a quello che sta accadendo nelle vicende Ilva e soprattutto Atlantia. Se la sacrosanta ricerca e attribuzione delle responsabilità e le eventuali modifiche contrattuali avvenissero forzando le regole del diritto, il segnale per chi investe nel Paese non sarebbe certo incoraggiante.