Politica

Da Mussolini a Salvini, il culto della personalità è un affare italiano

Il capostipite del culto della personalità all’italiana è stato il Duce: trasformò il suo movimento in una fabbrica del consenso. Era il Mussolini della “gente comune”, il “giustiziere” per conto del “popolo”, con la sua retorica sborona e aggressiva tipo “Spezzeremo le reni alla Grecia”, “Vincere e vinceremo” e bufale varie. Per contagiare la gente usò le adunate oceaniche, i cinegiornali e la radio. Sappiamo com’è andata a finire.

Nell’Italia repubblicana invece il pioniere è stato Bettino Craxi: durante gli anni Ottanta rianimò i cocci del Psi (oscurato dal Pci), portandolo alla Presidenza del Consiglio; poi, però, lo accompagnò dal gigantismo del potere alla tomba. Di lui nel 2000, quando morì durante l’autoesilio tunisino, scrisse Indro Montanelli sul Corriere della Sera: “Aveva anche una spiccata – e funesta – propensione a considerare nemici tutti coloro che non si rassegnavano a fargli da servitori. Sono pochi, intendiamoci, i politici immuni da questo vizio. Ma alcuni di essi sanno almeno mascherarlo. Craxi era di quelli che l’ostentano sino ad esporsi all’accusa di culto della personalità: un culto (…) che, trasferito sul piano nazionale, avrebbe potuto procurargli seri guai. Non perché a noi italiani certi atteggiamenti dispiacciano, anzi. Ma perché, in fatto di guappi, siamo diventati, dopo Mussolini, molto più esigenti: quelli di cartone li annusiamo subito”.

Montanelli ricordò che, nel periodo di massimo splendore di Craxi, “i salotti se lo contendevano, le signore lo trovavano perfino avvenente, o almeno sexy”. Ma già prima di Tangentopoli cominciò a sgretolarsi: “L’uomo appariva spavaldo; più che efficiente, ingombrante; e più che autorevole, insolente”. Montanelli evitò di ricordare che – con uno stile da fare invidia agli attuali governanti – nel 1983 Craxi, presidente del Consiglio, nelle telefonate intercettate si lamentava con Berlusconi. Craxi gli diceva: “Questo Montanelli è una merdolina, mi fa la guerra, c’è solo l’Unità che è peggio”. Guarda caso, qualche anno dopo arrivò proprio Berlusconi: sapeva usare ancora meglio la tv (tanto da aver già creato un immaginario di massa a lui favorevole con le sue reti) e negli ultimi decenni, dal 1994 fino a pochi anni fa, è stato una star della vendita al dettaglio di slogan.

Sul fronte opposto il direttore d’orchestra che ha messo benzina sul fuoco della politica dopata dall’egocentrismo è stato Massimo D’Alema (ex Pci, ex Pds, ex Pd), così preso nella parte del più sagace e intelligente del reame da essersi convinto fin troppo di esserlo. I risultati della sua linea e la corte di adulatori/collaboratori bifronti che ha coltivato mentre annichiliva la vecchia guardia, sono sotto gli occhi di tutti.

Il bello (anzi, il brutto) è che l’ibridazione tra berlusconismo e dalemismo a un certo punto ha creato la leadership nel Pd di Matteo Renzi: un postdemocristiano più che un postcomunista, che è riuscito per un po’ a vendersi come rottamatore, nonché cacciatore di gufi e di capri espiatori. Il risultato, in questa società in cui ormai si vota con lo spirito di chi clicca volubili like? Il “suo” Pd dal 40% è passato, nel giro di poco tempo, a meno della metà.

Beppe Grillo sul fronte dell’egocentrismo non è secondo a nessuno. Però è stato così dominante da non avere lasciato eredi in grado di connettere popolo e incazzature quanto lui. Così oggi il vero premier del governo pentaleghista è Matteo Salvini, che oscura rivali e alleati. Come? Proponendosi come “maschio Alfa” della politica online, a costo di fare naufragare un tot di migranti e di avere il gomito del tennista a forza di selfie (pure durante i funerali genovesi!) e di autointerviste ringhianti. Con il risultato noto: voti più che raddoppiati.

La politica basata sul mondo dei mass media e dell’immagine, già partorita dal berlusconismo e usata ora dal salvinismo soprattutto grazie al web, ha definitivamente sovrapposto corpo privato (compreso quello in mutande sulla spiaggia di turno) e corpo pubblico del leader: sono la stessa cosa. Oggi Salvini mischia con furbizia e perizia lo stile “virile” di Benito con quello “piacione” di Silvio, shakerati assieme. E fa scomparire nel limbo mediale del “non pervenuto” il grillino Gigio Di Maio, con cui lo accomunano però la consueta allergia all’autocritica e la solita caccia al capro espiatorio.

Il tempo ci farà presto sapere se anche i due corpi di Salvini, dopo quelli dei suoi più illustri predecessori, si mangeranno a vicenda. Di certo il (vice)premier, proprietario della Lega post-nordista e iperdestrista, dovrebbe prendere atto di un fenomeno ricorrente nelle stanze del potere: innamorarsi follemente di se stessi porta una sfiga bestiale. Soprattutto se il re è inconcludente e pure nudo; anzi, in boxer.