“I did not have sexual relations with that woman, Monica Lewinski….” (Non ho avuto relazioni sessuali con quella donna, Monica Lewinski…). È da tempo – più esattamente da quando, 19 mesi orsono, il palazzinaro Donald Trump è entrato alla Casa Bianca – che questa celebre frase continua, ogni giorno, più volte al giorno, a tornarmi alla mente. E a rammentarmi, in un rossiniano crescendo di nostalgia, tempi che innocenti non erano per nulla, ma che tali sempre più appaiono sullo sfondo, truce e grottesco al tempo stesso, della nuova normalità “trumpiana”. Ovvero: nella realtà d’una America che va assuefacendosi alla cronica ciarlataneria del suo presidente e, con essa, al rapido disgregarsi del sistema di valori – veri o falsi che fossero – su cui da oltre due secoli si considerava fondata.
Di certo lo ricorderete: a pronunciare quella frase fu, in un messaggio televisivo, il 26 gennaio del 1998, il presidente Bill Clinton. E fu per quella frase – più tardi corretta dall’altrettanto celebre ammissione d’una “non appropriata” relazione con la stagista della Casa Bianca – che Clinton (poi assolto) dovette affrontare, non solo un processo d’impeachment, ma anche la pubblica umiliazione di interrogatori che denudavano, di fronte al Paese che governava, i più intimi dettagli della sua vita sessuale. Non aveva commesso alcun crimine Bill Clinton. Ma aveva pubblicamente mentito. E tanto era bastato perché – al termine d’una caccia all’uomo partita quattro anni prima da un minuscolo caso di speculazione immobiliare in quel di Whitewater, in Arkansas – un Congresso a maggioranza repubblicana lo mettesse sotto accusa per gli “high crimes and misdemeanors” sanciti dalla Costituzione.
Fine del flashback e rapido ritorno, sorvolati vent’anni di storia, ai giorni nostri. Dove, come narrano le cronache di queste ore, d’acchito ci s’imbatte in un altro presidente che mente. E che mente, stavolta, non per negare una tresca amorosa (che pure c’è stata, in forma multipla e particolarmente sordida), ma per coprire un crimine. Questo è quanto inequivocabilmente afferma l’avvocato personale di Donald Trump, Michael Cohen, confessando di avere pagato, nel pieno della campagna presidenziale, sontuose somme di danaro a due donne (una porno-star ed una pin-up della rivista Playboy) al fine di comprare il loro silenzio.
E dice di averlo fatto – come la logica suggerisce – non per piacer suo, ma per ordine della persona (un “candidato a cariche federali”, chi mai sarà?) con la quale le due donne sostenevano d’avere avuto una relazione. Questo tipo di pagamento (hush money, come viene definito) è, date le circostanze, molto chiaramente considerato dalla legge USA come una contribuzione elettorale che, in quanto tale, va dichiarata. Cosa che sia Cohen, sia il “candidato a cariche federali” si sono ben guardati dal fare. A dirla tutta, prima di ieri, il “candidato” di cui sopra aveva ripetutamente negato non solo di aver ordinato, ma anche solo d’esser a conoscenza dell’avvenuto pagamento.
Donald Trump, presidente degli Stati Uniti d’America, ha dunque, come Clinton, mentito. E – molto peggio non solo del Clinton del sexgate, ma anche del Nixon del Watergate – l’ha fatto per mascherare un crimine. In altri tempi – tempi pretrumpiani – l’apertura di una procedura d’impeachment sarebbe stata del tutto scontata. Oggi lo è molto meno, nonostante le confessioni di Michael Cohen – un personaggio che, per il suo ruolo, conosce tutti i più sudici risvolti delle attività trumpiane – si preannuncino come una sorta di valanga.
Perché questa differenza? Per molti motivi, il più immediato dei quali è certo la complicità del Partito Repubblicano che da anni, grazie anche ad uno scandaloso “gerrymandering”, controlla la maggioranza del Congresso; e che, al culmine di quella che molti osservatori definiscono una “involuzione tribale”, sembra aver perduto ogni senso dello Stato. Molti motivi, spesso non facili da analizzare ma tutti, in un modo o nell’altro, conseguenze d’un unico fenomeno. L’avvento alla presidenza di Donald Trump – evento che è, anch’esso, molto più un effetto che una causa – ha radicalmente modificato, anzi, ha impietosamente distrutto il “culto della verità” che ha per tanti anni caratterizzato la politica americana. O forse ne ha soltanto rivelato l’intima, storica ipocrisia. L’America che, regnante Bill Clinton, aveva messo sotto accusa il presidente per aver negato la sua “inappropriata” relazione con “quella donna”, era dopotutto la stessa che solo qualche anno più tardi avrebbe dichiarato una guerra, ancora sanguinosamente in corso, in base alle più menzognere delle motivazioni (le famose “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein).
Negli Usa la verità è stata assassinata. E, per quanto fosse da tempo malata, l’autopsia molto chiaramente rivela quale sia la causa immediata della sua morte: strangolamento per quantità di menzogne. Stando, infatti, alla più accreditata delle rubriche di fact checking, quella che Glenn Kessler gestisce per il Washington Post, allo scadere dei suoi primi cento giorni di presidenza, Trump aveva mentito al Paese 492 volte, per una media quotidiana di 4,9 frottole. Alla fine dello scorso maggio, quando si approssimavano i 500 giorni di governo, il numero era salito a 3.251 (6,5 al giorno). Ed il più recente aggiornamento, a inizio agosto, ha elevato la media a 7,5 quotidiane falsità, per un totale di 4,229.
“Truth isn’t truth” (la verità non è la verità) ha detto giorni fa Rudi Giuliani – avvocato e strenuo difensore del presidente – nel coso di una intervista televisiva. La frase non era, ovviamente, che un goffo tentativo di rispondere alle incalzanti contestazioni dell’intervistatore. Ma in quest’America finita nelle mani di un ciarlatano è immancabilmente risuonata in ogni angolo del Paese, come il più consono degli epitaffi. Ella fu, insomma. E non occorre certo attendere “l’arduo giudizio” dei posteri per capire che non s’è trattato, in alcun modo, di vera gloria.