Donald Trump reagisce in modo rabbioso al giorno più nero della sua presidenza. Martedì il suo ex avvocato Michael Cohen lo ha coinvolto nella storia di pagamenti a due donne, in violazione della legge elettorale, e il suo ex campaign manager Paul Manafort è stato ritenuto colpevole di 8 capi di imputazione per frode bancaria ed evasione fiscale. “Ho grande rispetto per un uomo così coraggioso”, ha scritto Trump in un tweet, riferendosi a Manafort. Per il presidente, Cohen ha invece “ceduto alle pressioni e si è inventato delle storie per arrivare a un accordo” con l’accusa. La portavoce della Casa Bianca, Sarah Sanders, è poi andata davanti ai giornalisti e ha ripetuto che le accuse contro Manafort non riguardano il presidente, e che questi “non ha fatto nulla di male” nella vicenda di Michael Cohen. Nonostante dinieghi e contraccuse, questo è sicuramente il momento più delicato dell’inchiesta. Trump lo sa molto bene e, come dice lo storico Tim Weiner, “ora è terrorizzato”. Ma quali sono, a questo punto, i possibili sviluppi?
Trump può essere incriminato?
Quasi sicuramente, no. La sua situazione legale è compromessa e le accuse contro di lui sono pesanti. Il suo ex avvocato Cohen ha infatti affermato che “in coordinamento e sotto la direzione di un candidato a una carica federale” – quindi proprio Trump – avrebbe pagato la porno star Stormy Daniels per farla tacere sulla passata relazione. Cohen avrebbe effettuato il pagamento – 130mila dollari – attraverso una società fantasma, Essential Consultants LLC. Sempre Cohen avrebbe poi sollecitato il National Enquirer a pagare 150mila dollari a Karen McDougal, una modella di Playboy che afferma, anche lei, di aver avuto una storia col presidente. Va ricordato che i pagamenti di Cohen violano la legge sui finanziamenti elettorali, che limitano il contributo a un candidato a 2700 dollari. E va anche ricordato che Trump ha in diverse occasioni negato di essere a conoscenza dei pagamenti stessi – per essere poi smentito da una registrazione effettuata proprio da Cohen nel 2016, in cui si sente Trump discutere del pagamento a McDougal.
Riconosciuta la gravità delle prove a suo carico, è improbabile che Trump venga incriminato. Una prassi ormai storicamente accettata del Dipartimento alla Giustizia esclude che un presidente in carica possa essere incriminato. Assicurazioni in questo senso sono anche arrivate da Robert Mueller, lo special counsel. “Tutto quello che deve fare è scrivere un report”, ha spiegato Rudy Giuliani, uno dei legali di Trump. C’è, a conferma di ciò, un altro dettaglio importante. Nell’atto di accusa contro Michael Cohen – vergato dal Souther District di New York – ci si riferisce a Trump come “individual 1”. È prassi consolidata dei procuratori di New York non citare col nome quelle persone che non verranno incriminate.
Scatterà l’impeachment contro Trump?
Questa è una domanda cui al momento non c’è risposta; ma è la domanda che sicuramente Trump teme di più. Mentre infatti l’incriminazione è una questione legale, l’impeachment è una questione politica. Finora i democratici hanno preferito non prenderla davvero in considerazione. La base democratica vuole, fortissimamente vuole, che il presidente venga messo sotto accusa dal Congresso. Ma la leadership democratica di Washington si è sinora mantenuta molto prudente. L’anno scorso una richiesta di impeachment presentata dal deputato del Texas Al Green è stata sostenuta da 58 congressmen democratici. La parola impeachment non è mai stata pronunciata dai leader del Congresso, Nancy Pelosi e Chuck Schumer, ma non è apparsa nemmeno nei discorsi di Bernie Sanders e di Elizabeth Warren, quindi dell’ala più a sinistra del partito. I democratici, del resto, pensano che una campagna a favore dell’impeachment possa sì motivare la base più appassionata (che comunque a novembre voterà democratico), ma possa spaventare e dunque allontanare gli elettori centristi.
Questo il quadro politico al momento, un quadro che però potrebbe cambiare rapidamente. Se infatti, come appare dai sondaggi, i democratici riconquisteranno la Camera nelle elezioni di midterm, gli appelli della base democratica per l’impeachment potrebbero farsi più pressanti; e dunque sarebbe molto difficile per i democratici di Washington guardare dall’altra parte. Per questo la “I-word”, la I di impeachment, è al momento la parola meno pronunciata ma più sottintesa nella politica americana. Appare ormai chiaro che le elezioni di novembre hanno come posta in gioco proprio il futuro di questo presidente. Lo ha detto, con la brutalità che lo contraddistingue, Steve Bannon, ex consigliere di Trump e teorico della alt-right: “Quello di novembre è un referendum sull’impeachment. Ogni sostenitore di Trump deve saperlo”. Se i democratici si riprendono la Camera, l’impeachment è una possibilità concreta. Soprattutto se, come sembra, dovessero uscire altre accuse importanti contro Trump.
Novità sulla Russia?
Le accuse importanti potrebbero riguardare proprio la questione del coinvolgimento della Russia alle elezioni presidenziali 2016. C’è infatti un elemento che non va mai dimenticato. Il vortice di inchieste con al centro l’attuale presidente ha sempre avuto una sponda legale – quella rappresentata proprio dalle accuse contro Michael Cohen – e una sponda politica – quella che ruota attorno al coinvolgimento russo. È proprio quest’ultima che preoccupa di più Trump, perché è la connection russa che potrebbe essergli fatale. Ci sono due notizie che nella ridda di storie di questi giorni sono passate sotto silenzio. Il consigliere legale della Casa Bianca Don McGahn ha trascorso la settimana scorsa ben trenta ore con il team di Mueller. Che cosa si siano detti non è dato saperlo, ma è altamente probabile che il tema in discussione abbia riguardato proprio la Russia. Altra notizia. Il chief financial officer della Trump Organization, Allen Weisselberg, è stato chiamato a testimoniare da Mueller. Le due cose, collegate, lasciano intendere che la questione russa resta al centro dell’indagine di Mueller. Dopo aver documentato come i russi abbiano messo in atto una massiccia campagna online per influenzare l’esito delle presidenziali 2016, Mueller non lascia la presa e cerca, dentro la Trump Organization (da qui l’ordine di comparizione per Weisselberg), le prove di possibili intese, politiche e finanziare, tra il presidente e i russi. C’è un altro indizio che spinge in questa direzione. La prigione per Michael Flynn, l’ex consigliere alla sicurezza nazionale di Trump condannato proprio per aver mentito sui suoi legami con il Cremlino, è stata posticipata. “Per favorire la sua partecipazione all’indagine in corso”, dicono gli avvocati di Flynn. L’indagine non può essere altro che quella sulla Russia. Che però nei prossimi mesi potrebbe arricchirsi di un’ulteriore protagonista: Paul Manafort, condannato per frode fiscale e bancaria, l’uomo nel cui passato ci sono stretti legami con Ucraina e Russia (è notizia di qualche giorno fa: Manafort nel 2005 andò in Kyrgyzstan per promuovere gli interessi russi). Manafort è in attesa della sentenza. Possibile, probabile, l’ergastolo. A meno che non si metta, anche lui, a collaborare con lo special counsel Mueller.