Ambiente & Veleni

Ponte Morandi, cosa può insegnare all’ingegneria il crollo di Genova

Nel mondo molti sono stati i casi, anche recenti, di “man-made disasters”. Parecchi hanno coinvolto i ponti, protagonisti della storia dell’umanità fino a diventare un simbolo degno di comparire sulle banconote europee, ma anche strumenti diabolici secondo le più diverse mitologie. Come scrisse Anita SeppilliSacralità dell’acqua e sacrilegio dei ponti (Sellerio, 1977) – l’asservimento dei fiumi ha profonde implicazioni antropologiche: “Richiesero i ponti più antichi il presidio di sacrifici umani? L’interrogativo potrebbe sembrare del tutto arbitrario se non tenesse conto della persistenza di drammatiche leggende mantenutesi vive ancor oggi in tutta l’area balcanica e oltre”. E in tutta Europa non mancano molteplici esemplari di “Ponte del Diavolo”, compreso quello di Civita che attraversa la gola del torrente Raganello, dove pochi giorni fa si è compiuta una tragedia che rammenta il disastro di Soverato del 2000 per la sua drammatica assurdità.

In molti casi, causa dei man-made disasters è l’errore di chi progetta, realizza, collauda, manutiene o gestisce le opere. Qualche volta è solo una di queste attività, più sovente tutte assieme; ma non il diavolo, in tutt’altre faccende affaccendato. Raramente il destino cinico e baro o l’evento imprevedibile o impredicibile. Nel caso del ponte sul Polcevera – progettato da uno dei più innovativi protagonisti dell’ingegneria civile del XX secolo, Riccardo Morandi – capire le ragioni del crollo sarà un esercizio arduo. L’opera d’arte è complicata dal punto di vista meccanico e reologico, dove il ruolo della complessità strutturale, di eventuali difetti di esecuzione, del prolungato esercizio e dell’obsolescenza, nonché gli effetti delle prolungate sollecitazioni atmosferiche e del meteo dovranno essere compresi e valutati, assieme ad altri fattori. E andranno prese in esame tutte le pratiche ispettive, vicine e lontane negli anni.

Molte inquietudini hanno accompagnato l’opera fin dalla sua realizzazione, come ha dichiarato il 23 agosto al quotidiano Il Secolo XIX il partigiano Giordano Bruschi – prodigiosa memoria storica di una città e autore, tra l’altro, di Litania del Bisagno e Una Spoon River partigiana: “Ero nella direzione di Rifondazione comunista, ricordo bene quello che mi confidò la compagna Rina Gagliardi (scomparsa nel 2010, ndr): era la nuora di Riccardo Morandi e il suocero, negli ultimi anni di vita, era angosciato dal pensiero che il suo ponte potesse cedere”. Non solo, il gruppo comunista del Consiglio comunale dei primi anni 60 aveva criticato quel tracciato: “Assurdo fare un ponte piantato tra le case”. E i disastri che hanno colpito Genova nel nuovo millennio – dalle alluvioni del torrente Bisagno al crollo della Torre Piloti in porto – sembrano l’esito di un patto faustiano, quasi fosse scaturito dalla penna di Christopher Marlowe (1590): “le stelle ruotano, il tempo corre, l’orologio / suonerà, verrà il demonio e Faust sarà dannato”.

Il crollo del ponte deve costituire l’epilogo di questo patto. Mai come oggi la città è cosciente e unita e, forse per la prima volta, reagirà con forza e coesione, cancellando dalla storia il suo patto con il diavolo. Genova “non ti abbiamo mai amata tanto” scrive Ferruccio Sansa su questo giornale. Un sentimento comune anche a chi ha lasciato Genova molti anni fa.

Senza risalire alle eventuali inquietudini senili di Morandi – angosce che spesso colgono gli ingegneri che hanno sviluppato progetti innovativi e visionari – qualcosa si poteva capire anche ai giorni nostri. Per esempio, il ponte Morandi di Genova è stato protagonista di un articolo scientifico, pubblicato nel 2014 su una rivista internazionale.

Traduco qui le conclusioni, illuminanti: “Il ponte sul Polcevera e altri ponti di Morandi sono un riferimento eccezionale dal punto di vista concettuale, estetico e tecnico, che è ancora più rilevante se rapportato ai tempi in cui queste strutture vennero costruite. Al giorno d’oggi, tuttavia, non si possono riproporre schemi statici simili, sebbene brillanti. Secondo i moderni criteri di durabilità, il calcestruzzo precompresso non sembra una soluzione sicura per gli elementi in trazione. Inoltre, affidare la resistenza a trazione a un numero limitato di elementi rende poco robusta l’intera struttura e fa sì che le di manutenzioni risultino piuttosto difficili. Le moderne configurazioni dei ponti, caratterizzate da un numero elevato di stralli, sono progettate in modo tale che, in caso di rottura di uno di essi, la conseguente perdita di resistenza trazione sia compensata da quella degli altri stralli, facilitando manutenzione e sostituzione dei cavi“. In parole povere, a chi teme di perdere le braghe, consiglio, oltre alle bretelle, d’indossare anche una cintura.

La resilienza, strutturale e infrastrutturale, è perciò una sfida importante non solo per la città italiana che l’ha più trascurata nel XX secolo, ma per il Paese e per tutto il mondo avanzato, dove l’obsolescenza tecnica, reologica, costruttiva e gestionale pesano su strutture e infrastrutture spesso datate. Bisogna coniugare qui il patrimonio storico e il progresso. Affidare alla sola magia della Abc – l’Analisi benefici-costi – le soluzioni strutturali e infrastrutturali non sempre rende giustizia alla resilienza del sistema, a piccola e grande scala. E conforta l’assenza (finora) dell’Abc nel dibattito sul “che fare” adesso.

Ma il disastro genovese pone anche altre questioni. L’ingegneria moderna ha il controllo dell’intero ciclo di vita delle sue opere e se tale ciclo si risolve in una catastrofe deve fare i conti con il proprio tragico fallimento.

Devo però risalire al 1970, all’appello di Giulio De Marchi – docente di Idraulica del Politecnico di Milano e presidente della Commissione per la difesa del suolo – per riscoprire la consapevolezza sulla missione dell’ingegnere: “La documentazione sugli eventi negativi deve essere perfettamente conosciuta da chi intende operare sul territorio e in primo luogo, oltre che dai funzionari delle pubbliche amministrazioni, dai professionisti laureati e diplomati, dai docenti e dagli allievi delle scuole corrispondenti a tali professioni. Soprattutto nelle scuole d’ingegneria non dovrebbero essere tollerati il silenzio o le spiegazioni monche, distorte o evasive, sulle difficoltà e sugli insuccessi delle opere d’ingegneria”. Si riferiva alla tragica sequenza di errori alla base della catastrofe del Vajont, ma è un principio che si può applicare tal quale a quelle genovesi, dalle esondazioni del torrente Bisagno e dei suoi affluenti al crollo della Torre Piloti e alla rovinosa fine del Ponte Morandi.

La diga del Vajont è ancora lì – 262 metri in altezza, la più alta d’Italia – ma vale la pena costruire una diga indistruttibile, se il risultato sono duemila morti a valle? La si può battezzare un “successo” dell’ingegneria civile come fecero alcuni tra i miei insegnanti e fa tuttora qualche commentatore di questo blog? Come hanno scritto Hendron e Patton, gli studiosi del U.s. Army Corps of Engineers che studiarono il disastro, il Vajont è un classico esempio del fallimento di ingegneri e geologi nel comprendere il problema che tentavano di risolvere, ma ha gettato comunque le basi della moderna geo-ingegneria. Il disastro del Ponte sul Polcevera – un archetipo tecnico, culturale e affettivo per i baby-boomer genovesi che hanno scelto l’ingegneria civile come missione – saprà far scuola?

Qualcuno ha accolto con un brivido la scelta del Padiglione Nouvel per il funerale di Stato dei caduti per il crollo del Ponte Morandi. Un evento commovente, davanti al grande Cristo listato a lutto delle Confraternite; e nello stesso tempo controverso, poiché molte famiglie delle vittime avevano preferito cerimonie private. Lo stesso edificio – inaugurato nel 2009 – fu protagonista di un crollo in corso d’opera. “E solo per un caso fortuito sotto alle macerie non rimase nessuno: il nuovo padiglione della Fiera di Genova concepito da Jean Nouvel crollò mentre gli operai erano in pausa pranzo” raccontava Marco Grasso su The Medi Telegraph. Insomma, l’ingegneria ha regalato all’umanità uno straordinario progresso e opere eccezionali, ma deve anche fare i conti con i suoi fallimenti, grandi o piccoli, affinché gli errori non si ripetano.

L’ingegnere che ebbe l’ingrato compito di fronteggiare la Grande depressione del 1929, il presidente Herbert Hoover, affermava che un ingegnere non può seppellire i suoi errori nella tomba come i medici; né può trasformarli in aria sottile o darne colpa ai giudici come gli avvocati. Egli non può coprire i suoi insuccessi con alberi o rampicanti come gli architetti; né, come i politici, riversare gli errori sugli oppositori sperando che la gente dimentichi. Può solo sperare che l’esperienza – la somma di tutti gli errori, secondo Thomas Alva Edison – aiuti a migliorare le scelte del presente e del futuro.

L’Italia è un Paese che, da anni, infanga la cultura del progetto, disprezza la competenza e umilia la pratica della manutenzione. Da sempre, invece, coltiva i disastri quali momenti fondativi della propria unità nazionale, sebbene con una memoria molto breve. Sempre più raramente l’imperativo di De Marchi viene osservato nelle scuole d’ingegneria, dove l’attitudine al silenzio e alle spiegazioni monche, distorte o evasive, non si è esaurita. E l’esortazione rimane ancora un grido manzoniano.

Oggi Genova può segnalare una svolta, sia in ambito culturale ed educativo, dentro e soprattutto fuori le scuole di ingegneria e architettura; sia nel concreto, con una nuova “opera d’arte” nel senso pieno di questa definizione, non solo un “manufatto delle costruzioni civili, in particolare stradali, ferroviarie e idrauliche, p.es. ponti, dighe, gallerie” (Vocabolario Treccani) ma anche un “elaborato dell’ingegno umano che nasce dall’intento di operare in senso estetico” (Dizionario italiano De Mauro).