Il 19 agosto, nel corso di un mese di ordinaria repressione, si diffonde su Twitter la notizia di una decapitazione in pubblico in Arabia Saudita.
Non sarebbe, purtroppo, una novità: di condanne a morte nel regno saudita, con quella lugubre modalità, ne vengono eseguite oltre 100 all’anno. La novità è piuttosto che si tratterebbe della prima donna messa a morte in Arabia Saudita a causa del suo attivismo politico.
La notizia si propaga velocemente, anche in Italia, raggiungendo oltre 20.000 tra like e retweet. Viene pubblicata una fotografia in primo piano, accompagnata da un’immagine sgranata della decapitazione di una donna e dalle ultime parole dette prima di morire. Il nome della donna è Israa al-Ghomgham e questa è l’unica cosa vera. La foto è di un’altra attivista in carcere, le immagini sono della decapitazione di una lavoratrice straniera messa a morte anni fa e ovviamente le ultime parole prima di morire non sono mai state pronunciate.
Israa al-Ghomgham è, sì, seriamente a rischio di essere decapitata, ma è ancora viva e nelle prossime settimane si cercherà di salvarla.
Per lei e altri quattro imputati, compreso suo marito Moussa al-Hashem, il 6 agosto la pubblica accusa ha chiesto la condanna a morte, nel corso di un’udienza celebrata presso il tribunale penale specializzato in casi di terrorismo.
Israa al-Ghomgham è in carcere dall’8 dicembre 2015. Sin dal 2011 aveva preso parte alle proteste nella Provincia orientale, dove la minoranza sciita – che lì è maggioranza – si sente fortemente discriminata dal potere centrale sunnita, che reprime le manifestazioni a colpi di arresti e condanne a morte di massa.
Secondo quanto ricostruito da Amnesty International, Israa al-Ghomgham è accusata di: aver violato il decreto reale 44/a per aver partecipato alle proteste nella città di Qatif e averle documentate sui social media; aver fornito sostegno morale ai rivoltosi partecipando ai funerali dei manifestanti uccisi durante gli scontri con le forze di sicurezza; aver usato la foto del passaporto di un’altra donna come immagine del suo profilo Facebook; aver violato l’articolo 6 della Legge contro i reati informatici per avere, tra l’altro, “istigato a manifestare e aver pubblicato su Facebook foto e video delle proteste”.
Sono molti gli sciiti in attesa dell’esecuzione nelle prigioni del paese: 33 di loro hanno esaurito i ricorsi giudiziari e possono puntare solo sulla grazia reale. Quattro sono stati condannati a morte per presunti reati commessi quando erano minorenni.
L’udienza nella quale Israa al-Ghomgham conoscerà il suo destino dovrebbe svolgersi il 28 ottobre.
(Foto d’archivio)