Mondo

Sud America, raid violenti e xenofobia: nessuno vuole i profughi del Venezuela. “Crisi come quella del Mediterraneo”

In Brasile hanno dato alle fiamme un accampamento e hanno chiesto di chiudere la frontiera. In Perù li schedano e vogliono vedere il passaporto. L'Ecuador è diventato un corridoio umanitario ma si è allontanato dal governo di Caracas avvicinandosi all'Osa, il fronte anti Maduro. Aumentano le misure restrittive contro i venezuelani in fuga dalla crisi economica e sociale che attanaglia il loro Paese: 2,3 milioni i cittadini in fuga in 5 anni. E nei Paesi del subcontinente, fino a oggi solidali, le certezze iniziano a scricchiolare. Nonostante gli appelli Oim e Unhcr

Le immagini dei campi improvvisati di profughi venezuelani dati alle fiamme da orde di brasiliani adirati che con violenza hanno cercato fisicamente di rispedire i migranti oltre il confine nazionale, danno bene l’idea del clima di tensione che si respira in Brasile. Nello stato del Roraima, al confine amazzonico con il Venezuela, è stato necessario l’invio delle forze armate per riportare la calma. Il timore è che anche in altri Paesi possano verificarsi violenze a causa della crisi umanitaria più grave mai registrata nella storia dell’America Latina.

Oim: “Crisi come quella del Mediterraneo” – Considerato il flusso inarrestabile di profughi venezuelani in fuga dalla crisi economica e sociale che attanaglia il loro paese, le prime misure restrittive adottate dagli Stati vicini e i primi casi di xenofobia, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha definito il momento “tanto critico da far sembrare l’emergenza venezuelana sempre più simile a quella del Mediterraneo”. Degli oltre 2 milioni e 300mila venezuelani che hanno lasciato il proprio paese negli ultimi cinque anni, secondo le stime dell’Unhcr il 90% è rimasto in sud America. E nei Paesi del subcontinente, fino a oggi solidali, le certezze iniziano a scricchiolare.

In 5 anni 2,3 milioni di profughi – I segnali di allarme provenienti dalla regione preoccupano Oim e Unhcr, che negli ultimi giorni hanno lanciato diversi appelli ai paesi dell’area a non chiudere le porte ai migranti, e stanziato settanta milioni di dollari per far fronte all’emergenza. Le due organizzazioni hanno sottolineato la necessità di mettere in atto un piano concordato per la gestione della crisi. Un appello raccolto dalla Colombia, paese che ha assunto una posizione di leadership, grazie a un pragmatismo e una discreta abilità di gestione mostrati nel gestire l’accoglienza del milione circa di venezuelani già nel paese. Il responsabile dei servizi immigrazione di Bogotà, Christian Kruger, ha inviato i suoi omologhi di Perù ed Ecuador, in un incontro nella capitale colombiana i prossimi lunedì e martedì, per esplorare possibili vie d’uscita condivise.

Ecuador, corridoio umanitario – I problemi maggiori si registrano infatti proprio in Ecuador e Perù, le cui autorità mostrano sempre maggiori difficoltà, reagendo con misure incerte o restrittive. Come componente della Comunità andina, insieme a Bolivia, Cile, Colombia e Venezuela, ai cittadini di questi paesi è garantito l’ingresso in Ecuador con la sola carta di identità. Per cercare di arginare il flusso di arrivi, il governo ha disposto la scorsa settimana la sospensione dell’agevolazione, imponendo la presentazione del passaporto. La misura, contestata a livello internazionale dai vertici di Unhcr e Iom “preoccupati per le nuove disposizioni rivolte specificatamente contro i venezuelani”, è stata criticata anche a livello regionale. Per il responsabile dell’immigrazione colombiana Kruger infatti: “Richiedere passaporti dai cittadini di una nazione il cui governo non facilita l’emissione di questo documento, significa incoraggiare l’irregolarità”.

A piedi fino al Perù – Alla fine, dopo il ricorso dell’ufficio del difensore civico ecuadoriano, un giudice del tribunale di Quito ha annullato la disposizione dell’esecutivo. A questo punto il governo ha operato un’inversione di marcia. Dei 560mila venezuelani entrati nel paese dall’inizio del 2018, solo il 20% ha intenzione di rimanere. Il ministro degli Interni Mauro Toscanini, consapevole che il suo sia solo paese di transito, ha fatto in modo da facilitare il passaggio più rapido possibile di profughi aprendo un corridoio umanitario. Il governo ha così attivato il trasferimento di profughi dal confine con la Colombia, nella città di Tuclan, fino al confine del Perù, nella città di Tumbes. Un viaggio di 16 ore in autobus che molti venezuelani per mesi hanno affrontando a piedi.

Schedati al confine con Lima – I problemi per i migranti non finiscono al confine ecuadoriano. Il Perù infatti, paese di destinazione finale che ospita già 400mila venezuelani, ha disposto che per l’ingresso al Paese dovrà essere mostrato il passaporto. Le autorità hanno previsto anche la schedatura di tutti i migranti venezuelani con fotografia e raccolta delle impronte digitali. Una misura contestata dietro la quale il ministro degli Interni Mauro Medina ha sottolineato che “non c’è alcuna persecuzione. Vogliamo i venezuelani nel nostro paese ma dobbiamo essere certi della loro identità per la sicurezza di tutti”.

In Brasile violenza e xenofobia – Nonostante i numeri più contenuti, invece, è in Brasile che si sono registrati i primi casi di xenofobia a causa della convivenza forzata tra le popolazioni locali e le migliaia di venezuelani nello stato del Roraima. Dalla frontiera amazzonica di Paracaima sono passati, secondo il Comitato federale di assistenza emergenziale, 128 mila venezuelani. Per i 68mila circa rimasti, le condizioni sono proibitive. Lo scorso sabato, dopo una rapina subita da un imprenditore locale imputata a criminali venezuelani, è esplosa la rabbia. La popolazione è insorta: i campi improvvisati sono stati dati alle fiamme e i venezuelani cacciati con violenza. La calma è tornata solo dopo l’intervento delle forze armate. Ma la situazione generale resta tesa, tanto che lo stato del Roraima ha chiesto alla Corte suprema di poter chiudere temporaneamente la frontiera, in attesa dell’elaborazione di un piano organizzato di accoglienza per i profughi.

A Caracas inflazione a un milione% –La fuga dei venezuelani lascia bene emergere la crisi che attanaglia il paese. Negli ultimi cinque anni si è perso il 40% del Pil, mentre l’inflazione è salita fino a un milione percento. La scarsità di cibo e medicinali, e l’implosione dei servizi sociali, ha spinto milioni di persone a partire alla ricerca di un futuro migliore. Nel frattempo sempre più i governi della regione prendono le distanze dall’esecutivo di Nicolas Maduro. L’ultimo in ordine di tempo è proprio l’Ecuador. Schiacciato dalle conseguenze della crisi migratoria, il presidente Lenin Moreno ha annunciato il ritiro del Paese dall’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America (Alba). Fino allo scorso anno, con il presidente Rafael Correa in carica, Quito era stato uno dei più fedeli alleati dell’esecutivo chavista di Caracas. Ora, sottolineando la “mancanza di volontà” nella risoluzione della crisi economica e politica nel paese – dall’Ecuador affermano che “solo una stabilità democratica in Venezuela porterà a quella stabilità economica necessaria per invertire l’esodo dei cittadini”.

Il fronte anti Maduro – Il governo Moreno, dunque, procede lungo il sentiero del allontanamento. Allineandosi alle posizioni dichiaratamente anti-Maduro di Colombia, Brasile e dell’Organizzazione degli Stati americani. L’Osa mira da tempo a screditare il governo chavista. Il segretario generale Luis Almagro ha più volte additato l’esecutivo Maduro come illegittimo e dittatoriale, invocando un cambio di regime e il ritorno alla democrazia con nuove elezioni dal momento che, ha dichiarato “l’inefficienza governativa può far sì che le cose peggiorino”. Le ultime misure di politica economiche adottate dal governo venezuelano non sembrano infatti destinate a risollevare le sorti del Paese ormai in ginocchio. E mancano le condizioni perché il flusso migratorio si arresti.