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Aquarius, inviarla a Valencia costò 290mila euro di fondi Ue. Che potrebbe chiederli indietro

A rivelarlo è stata un’inchiesta del giornale online EUObserver, secondo cui l’Italia avrebbe prelevato più di 290mila euro dai fondi europei di emergenza per i salvataggi per coprire i costi di viaggio della nave Dattilo della Guardia Costiera, inviata in Spagna in supporto alla nave gestita dalle ong Sos Mediterranée e Msf. Un portavoce della Commissione ha dichiarato che nella fase di rendicontazione finale del fondo “si potrà stabilire se le spese sono idonee e analizzare la attività svolte dagli Stati membri”

“Evidentemente alzare la voce paga”. Così aveva esultato Matteo Salvini lo scorso giugno alla decisione del governo spagnolo di far attraccare a Valencia la nave Aquarius dopo la chiusura dei porti italiani. Per il neo ministro dell’Interno un’apparente prima vittoria nei confronti di Bruxelles accusata, a detta sua, di farsi gli affari sul tema immigrazione. Ma a pagare il conto salato per l’intransigenza del governo italiano sono stati soprattutto i contribuenti europei.

A rivelarlo è stata un’inchiesta del giornale online EUObserver, secondo cui l’Italia avrebbe prelevato più di 200mila euro dai fondi Ue per coprire i costi di viaggio della nave Dattilo della Guardia Costiera, inviata in Spagna in supporto all’Aquarius. Sussidi elargiti dalla Commissione Europea per aiutare il lavoro delle forze italiane impegnate in azioni di ricerca e soccorso in mare, ma che, in questo caso, avrebbero sovvenzionato un’operazione giudicata da molti come propaganda politica.

La notizia ha suscitato non pochi imbarazzi a Bruxelles. La Commissione, per voce della sua portavoce Tove Ernst, si è limitata a dire che “al momento non è possibile confermare queste informazioni”, rimandando valutazioni più approfondite alla chiusura formale del fondo europeo. Ovvero, quando al governo italiano verrà chiesto di giustificare le spese fatte.

Ma, al di là delle composte reazioni di facciata, è inevitabile che su questo caso rischi di aprirsi un nuovo terreno di scontro. Soprattutto all’indomani delle esternazioni poco conciliatorie espresse sulla crisi della Diciotti dal vicepremier Luigi di Maio, il quale ha minacciato lo stop dei contributi italiani al budget dell’Unione se l’Europa non prende i migranti.

Ma, per capire come siamo arrivati, è doveroso fare un passo indietro e ritornare alla vicenda Aquarius. È il 10 giugno scorso e la coalizione Movimento 5 Stelle-Lega si trova da pochi giorni al governo. La nave umanitaria gestita dalle ong Sos Mediterranee e Medici senza frontiere ha appena tratto in salvo 630 migranti su istruzione del Centro di Coordinamento del Soccorso Marittimo di Roma. Un’operazione simile alle tante che negli ultimi anni hanno permesso di mettere al sicuro decine di migliaia di vite umane.

Ma, al momento di ricevere indicazioni sul porto sicuro dove far sbarcare i naufraghi, la situazione muta radicalmente. il ministro dell’Interno annuncia via Twitter di aver chiuso i porti italiani all’Aquarius, accusando l’Europa di essersi fatta gli affari suoi per troppo tempo. Si apre così una profonda crisi umanitaria e diplomatica.

I 630 migranti, tra cui 123 minori non accompagnati e 7 donne incinte, restano a bordo della nave di soccorso, mentre i governi europei giocano una delicata partita politica sul loro destino. La situazione si sblocca dopo 48 ore, quando il premier spagnolo Pedro Sanchez annuncia che il porto di Valencia si impegna ad accogliere l’Aquarius. Per facilitare il complicato viaggio di 1.500 chilometri, il governo italiano mette a disposizione una nave della Marina Militare, l’Orione, e una della Guardia Costiera, la Dattilo, su cui vengono trasferiti alcuni migranti.

Il governo giallo-verde rivendica la soluzione del caso come una prima vittoria nel braccio di ferro con l’Europa. A uscirne trionfatore agli occhi di buona parte degli elettori è sopratutto Matteo Salvini che vede i consensi della Lega lievitare.

A due mesi di distanza EUObsever è riuscita a fare i conti in tasca a quell’operazione grazie ad una richiesta di accesso civico inviata alla Guardia Costiera. Scoprendo così che il costo ordinario della Dattilo è stimato in 740,15 euro per ogni ora di navigazione. Tenuto conto che il viaggio a Valencia, tra andata e ritorno è durato circa 290 ore, il prezzo per le casse pubbliche si aggira intorno ai 215mila euro. Ma non è tutto. A quella cifra va infatti aggiunto il pagamento degli straordinari all’equipaggio della Guardia Costiera: 5.500 euro al giorno, per un totale di 77mila euro.

In conclusione, dati alla mano l’impiego della sola Dattilo è costata ai contribuenti circa 290mila euro. A cui bisognerebbe ulteriormente sommare le spese per l’Orione, l’altra nave militare italiana che ha affiancato l’Aquarius. Informazioni che però al momento la Marina Militare non ha voluto rendere pubbliche.

Ma a far suscitare malumori dalle parti di Bruxelles è un altro elemento ricostruito da EUObserver. Ovvero che il 90% delle spese sostenute dal governo italiano sarebbe stato co-finanziato dall’Unione Europea attraverso i fondi di emergenza forniti per il soccorso in mare. Si tratta, nello specifico, di due accordi siglati dalla Commissione Europea e la Guardia Costiera nel 2017 e che hanno iniettato nella casse del corpo italiano 14,8 milioni di euro. Soldi che vengono elargiti con clausole abbastanza stringenti, che IlFattoQuotidiano.it ha potuto visionare.

Il primo dei due accordi – quello più corposo – ha tra i suoi obiettivi il “supporto delle attività di sorveglianza marittima e della conseguenti operazioni di ricerca e soccorso svolte da unità di tipo Dattilo”. Il contratto specifica poi i criteri da rispettare per far poter usufruire delle risorse finanziarie del fondo. “I costi devono essere necessari per lo svolgimento delle funzioni,” si legge nel testo, “devono essere ragionevoli, giustificati ed essere in linea con i principi di una gestione finanziaria sensata, in particolare per quanto concerne la loro efficienza”.

Spetterà alla Commissione Europea giudicare se la scelta di chiudere i vicini porti italiani e spedire l’imbarcazione nel lungo viaggio verso Valencia rientra nei paletti del fondo. Ad oggi, a Bruxelles le bocche sono ancora cucite. A margine di un incontro con i giornalisti martedì scorso Tove Ernst, portavoce della Commissione, ha dichiarato che soltanto nella fase di rendicontazione finale del fondo “si potrà stabilire se le spese sono idonee e analizzare la attività svolte dagli stati membri”.

A quel punto se l’Italia fosse accusata di aver violato i termini dell’accordo, il rischio sarebbe quello di dover restituire i soldi utilizzati impropriamente. Oltre, alla conseguenza più immediata di inasprire ulteriormente il rapporto con la istituzione europee.

di Diego Viganò