Lo screening con il test Hpv al posto del Pap test può avere un unico grosso inconveniente. Quello di dilatare i tempi dei normali controlli ginecologici. A sottolinearlo è il gineologo Carlo Maria Stigliani, responsabile scientifico di Aogoi (l’Associaizone dei ginecologi italiani) per il papilloma virus. Il test Hpv, infatti, a differenza del Pap test che nei programmi di screening regionali va eseguito ogni tre anni, viene prescritto con una frequenza quinquennale. E per tutto questo periodo potrebbe infondere una falsa sicurezza nelle donne disincentivandole dal fare una visita ginecologica di routine. La prevenzione non deve quindi sostituire i controlli. Non dobbiamo dimenticarci che il test serve a identificare il virus del Papilloma virus, responsabile principale del tumore al collo dell’utero, ma non previene da altre patologie delle ovaie e dell’interno dell’utero. I medici allora dovranno aiutarci a diventare più consapevoli dei rischi che corriamo e a non sottovalutarli.
A questo punto ci potremmo chiedere perché le nostre regioni, partendo da quelle del Centro Nord, hanno deciso di sostituire il Pap test con il test Hpv. Semplice: il secondo ha un impatto economico più modesto per le casse pubbliche. La lettura dei dati viene fatta da una macchina, mi spiega Stigliani, e non richiede come per il Pap test l’interpretazione di un patologo. E poi anziché ogni tre anni, dicevamo, va somministrato ogni cinque, richiedendo un impegno organizzativo minore e dunque trattandosi di programmi di prevenzione di massa il dispendio di risorse alla fine sarà di gran lunga inferiore.
Il test Hpv, più sensibile del Pap test, individua le donne positive all’infezione da papilloma virus con lesioni ad alto rischio cancerogeno (ci sono 120 tipi di virus Hpv, di cui una quarantina hanno attinenza con la sfera genitale: il tipo 16 e 18 sono i più pericolosi e responsabili del 70 per cento dei tumori cervicali). Lo sviluppo di lesioni che potrebbero evolvere in un tumore al collo dell’utero necessitano di tempi lunghi. Dopo un test negativo, dunque, è inutile ripetere il test sotto i cinque anni, anche perché eventuali nuove infezioni potrebbero sparire da sole (accade così nella maggior parte dei casi). Il Pap test invece è più specifico ed evidenzia lo stato funzionale delle cellule, se sono normali o presentano delle alterazioni, e viene consigliato in seconda battuta per approfondire un Hpv positivo.
La novità dello screening con test Hpv riguarda le donne dai 30 ai 64 anni. Mentre per quelle più giovani (dai 25 ai 30) è ancora consigliato il Pap test. Il contagio è diffusissimo già nei primi rapporti sessuali ma nell’80 per cento dei casi, mi spiega il medico, l’organismo riesce a debellare il virus autonomamente.
Un’altra arma molto importante contro il carcinoma al collo dell’utero è il vaccino anti-Hpv, che però non rientra tra quelli obbligatori del Decreto vaccini, pur essendo responsabile del 90 per cento dei carcinomi della cervice uterina e dell’ano. Le coperture vaccinali anti-Hpv oggi sono in picchiata. Nonostante ci siano prove di efficacia sempre più solide. A denunciarlo è la fondazione Gimbe in un documento pubblicato di recente (consultabile sul sito www.gimbe.org). I dati del ministero della Salute relativi al 2016 dimostrano che nelle coorti di nascita dal 1997 al 2000 la copertura era stata di circa il 70 per cento e poi è progressivamente diminuita nelle coorti 2002 (65 per cento) e 2003 (62 per cento) fino al crollo del 53 per cento nella coorte 2004. Eppure il vaccino è offerto gratuitamente a maschi e femmine tra gli 11 e 12 anni. Ma oggi la copertura, seppur in media a quella europea, è ben al di sotto della soglia ottimale prevista dal Piano nazionale (95 per cento).