Se non ricordo male, due anni fa fece rumore la notizia secondo cui nei giorni di festa sulla spiaggia libera di Laigueglia (Savona) si accalcassero fino a cinquemila persone. Per un fronte mare di 230 metri. Persone partite da Torino e Milano con treni e pullman anche alle due del mattino della domenica per raggiungere la spiaggia libera in tempo per piazzare il proprio ombrellone, la propria sedia pieghevole, la propria borsa frigo, possibilmente vicino all’agognata acqua. La situazione che si veniva a creare era talmente drammatica che si pensò al numero chiuso.
Ma la ragione di questo sovraffollamento trova una genesi non solo in un esodo di proporzioni bibliche ma anche in un dato fornito ancora una volta da Legambiente, associazione meritevole di fare questi censimenti: in Liguria solo il 14% della costa presenta spiagge libere. E, in generale, si può stimare che oltre il 60% delle coste sabbiose in Italia sia occupato da stabilimenti balneari.
Questo è quello che emerge dal dossier pubblicato in questi giorni appunto da Legambiente sulle spiagge italiane. E’ la privatizzazione degli arenili, ossia dei beni comuni. Una delle ennesime privatizzazioni di beni comuni che dobbiamo sopportare noi italiani. Che poi uno dice “vabeh facciamo questo sacrificio, ma almeno lo Stato ci guadagna”. Neanche quello: nel 2016 lo Stato ha incassato poco più di 103 milioni di euro dalle concessioni a fronte di un giro d’affari stimato da Nomisma pari a 15 miliardi di euro annui. Oltre il danno la beffa. Perché quello delle concessioni demaniali a scopo turistico ricreativo è un affare in cui basta esserci, come le acque minerali, come le terre da scavo: distrarre il bene comune costa poco, in compenso si guadagna molto, moltissimo.
Ma non è questo il punto su cui voglio puntare il dito adesso. Voglio invece puntare il dito su un altro tipo di responsabilità pubblica. Il turismo balneare è da sempre un turismo, passatemi il termine magari un po’ snob, “straccione”. Non si potrebbe fare qualcosa per incrementare la sensibilità ambientale di chi usufruisce delle spiagge? A costo di coprirmi di ridicolo, io, fossi un amministratore pubblico, provvederei a posizionare dei cartelli con cui si forniscono informazioni sul luogo che la gente frequenta, del tipo: come si è formata quella spiaggia? Che tipo di sabbia o di ciottoli ci sono? Quale la storia della spiaggia, era più estesa un tempo? Quale il fondo marino? Ci sono pesci, ci sono praterie di posidonia? Poi, certo, l’amministratore potrebbe anche fare molto di più: posizionare appositi contenitori per la raccolta differenziata; impedire la pesca davanti all’arenile, in modo da creare una specie di santuario per la fauna ittica, e così via.
In fondo, se ci pensate, in montagna la sensibilità dei frequentatori molte amministrazioni cercano di aumentarla, creando percorsi natura, indicando quale sia la geologia del territorio, quali le essenze arboree che si rinvengono. Perché in montagna sì ed al mare no? Perché il mare deve essere visto solo ed esclusivamente come una grande vasca da bagno?