Il ministro per la Pubblica amministrazione ha annunciato di voler assumere 450 mila nuovi dipendenti pubblici. Sarebbe utile per abbassare l’età media della Pa, ma bisognerebbe anche pensare a strategie per aumentarne la produttività e l’efficienza.
Dipendenti pubblici in calo per un decennio
Ha fatto molto rumore la proposta del ministro per la Pubblica amministrazione, Giulia Bongiorno, di assumere 450 mila nuovi dipendenti pubblici nel 2019. Si tratterebbe, come ha specificato sulle colonne del Corriere della sera, di anticipare al prossimo anno le assunzioni previste per il triennio 2019-2021, assicurando un turnover al 100 per cento tra coloro che andranno in pensione e i nuovi assunti.
Nel decennio 2007-2016, infatti, il numero di dipendenti all’interno della Pa ha subito una forte contrazione. Come evidenziato dall’ultimo conto annuale del ministero dell’Economia e delle finanze, la riduzione è stata causata principalmente dall’applicazione, seppur non uniforme in tutti i comparti, del blocco del turnover varato nella legge finanziaria del 2008. Essa imponeva a tutti i livelli della Pa di assumere nel 2010 nuovo personale per una spesa massima pari al 60 per cento di quella relativa ai contratti cessati nell’anno precedente. La disposizione è stata poi confermata dal decreto legge 112/2008, che anzi ha portato il contingente di personale assumibile al 20 per cento per il 2010 e 2011, e da altri provvedimenti normativi, fino ad arrivare alla legge di stabilità 2016 per il triennio 2016-2018.
Gli effetti sono osservabili nella figura 1, in cui sono mostrati i cinque comparti della Pa più importanti in termini di dipendenti insieme all’aggregazione delle altre categorie. Dal 2007 al 2016 la riduzione è stata pari al 7,2 per cento, corrispondente a un calo di 246mila unità, che ha portato il numero dei dipendenti pubblici a 3 milioni e 183mila. Il blocco del turnover ha penalizzato maggiormente l’organico dei ministeri (-18,8 per cento tra il 2007 e il 2016), dell’università (-16,7), delle regioni (-14,3), dei corpi di polizia (-9), del servizio sanitario nazionale (-4,9). In altri settori, invece, si è registrata una crescita: tra gli altri, la scuola (+4,4 per cento) e i vigili del fuoco (+7,5 per cento).
E gli altri paesi Ocse?
È utile confrontare la situazione italiana con quella delle altre economie mondiali, benché il numero dei dipendenti pubblici sia necessariamente legato alle diverse esigenze dei singoli paesi. La figura 2 mostra la percentuale di dipendenti della Pa sul totale degli occupati nei paesi Ocse. Secondo i dati del rapporto Government at a glance, l’Italia si trova ben al di sotto della media Ocse, con una percentuale di dipendenti pubblici del 13,6 sul totale degli occupati. La maggioranza dei paesi europei, Germania esclusa, registrano un tasso più alto: la Francia il 21,4 per cento; la Svezia il 28,6; la Spagna il 15,7; il Regno Unito, il 16,4. Considerando invece la percentuale di dipendenti pubblici sul totale della popolazione, i risultati sono ancora più netti: in Italia il 4,9 per cento, in Francia l’8,3, nel Regno Unito il 7,8, in Svezia il 14,1, in Spagna il 6 e in Germania il 5,2.
L’effetto sull’età
Il calo dei dipendenti pubblici, e in particolare la quota dovuta al blocco del turnover, ha notevolmente invecchiato l’organico delle amministrazioni pubbliche italiane. Infatti, essendoci stata una scarsa sostituzione dei lavoratori in pensione, e cioè una bassa quota di assunzioni, l’età media dei vari comparti è cresciuta. Secondo i dati del Conto annuale del Mef, nel 2016 l’età media era 50,34 anni, con picchi di oltre 52 anni nei ministeri, nelle regioni, nella scuola e nell’università.
Il confronto con gli altri paesi europei mostra un’immagine ancora più allarmante. L’Ocse suddivide i dipendenti pubblici delle amministrazioni centrali – quindi regioni escluse – in tre categorie di età: tra i 18 e i 34 anni, tra i 35 e i 54 e superiore ai 55 anni. Secondo tale suddivisione, mostrata nella figura 3, l’Italia è ultima per la quota di dipendenti con età inferiore ai 35 anni, solo il 2 per cento del totale. Al contrario, si posiziona prima per quelli con un’età superiore ai 55 anni, più del 45 per cento. Per avere un metro di paragone con due altri grandi paesi europei, la quota di lavoratori pubblici tra i 18 e i 34 anni in Francia è del 21 per cento e in Germania del 30; mentre la quota di lavoratori over 55 è del 24 per cento in Francia e del 20 in Germania.
La stessa Ocse ha più volte sottolineato la necessità, per il nostro paese, di diminuire l’età media dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche. Nel focus sull’Italia del 2017, ha infatti sottolineato il pericolo di come il pensionamento dei lavoratori più anziani possa nei prossimi anni causare una perdita di qualità e di “memoria istituzionale” nelle amministrazioni pubbliche, se non sarà intrapresa in contemporanea un’adeguata e proporzionata fase di assunzioni.
Lo stipendio dei dirigenti
Ma quanto pesano i dipendenti pubblici sul bilancio dello Stato? Circa 160 miliardi nel 2016, pari al 9,5 per cento del Pil. Una cifra certamente importante, ma che dovrebbe servire per garantire servizi essenziali ai cittadini. Tuttavia, dai dati Ocse, si nota che i dipendenti di alto livello in Italia percepiscono stipendi sensibilmente più alti rispetto agli altri paesi. Per esempio, nel 2015 lo stipendio medio di un dirigente del governo centrale di livello massimo è stato di circa 212 mila euro, oltre 8,5 volte il Pil pro capite italiano di quell’anno. Una retribuzione ben lontana da quella percepita in media dagli alti dirigenti tedeschi, circa 149 mila euro, e francesi, 142 mila euro. Se consideriamo poi la retribuzione totale, come fa l’Ocse sommando il salario, gli oneri sociali a carico del datore di lavoro e un coefficiente di correzione per la differenza dei periodi di lavoro tra paesi, si scopre che un alto dirigente italiano “costa” allo Stato circa 395mila dollari, più di 10 volte il Pil pro capite. Più pagati sono solo i dirigenti australiani.
C’è da dire che per merito del tetto di 240 mila euro agli stipendi dei dirigenti pubblici, introdotto dal 2014, le retribuzioni si sono ridotte rispetto al 2011, quando un dirigente apicale percepiva, esclusi i contributi sociali a carico del datore di lavoro, quasi 340 mila euro. Un calo del 37,4 per cento in soli quattro anni.
Resta curioso il fatto, tuttavia, che sia stata annunciata una nuova tornata di assunzioni – sicuramente utile per “svecchiare” la Pa – senza però aver fatto alcun tipo di ragionamento sull’efficienza della macchina amministrativa. Non si menziona in alcun modo la produttività e meccanismi di differenziazione salariale per stimolarla. E si è perso completamente di vista l’obiettivo di rendere più efficiente la Pa tramite la digitalizzazione e il perseguimento degli obiettivi dell’agenda digitale, che potrebbe tra l’altro avere effetti negativi sul totale di dipendenti pubblici necessari a far funzionare la macchina amministrativa. Oggi, più che nel passato, per avere un efficiente apparato pubblico non serve tanto aumentare il numero di dipendenti pubblici, ma è necessario capire in quali settori, e con quali mansioni, sia più necessario che lo Stato aumenti il suo organico. Senza sprechi, e con un’attenzione particolare alla digitalizzazione della macchina burocratica.