Un milione di euro come provvisionale, cioè l’anticipo sul risarcimento complessivo. I boss accusati dal falso pentito Vincenzo Scarantino di essere colpevoli della strage di via d’Amelio chiedono i danni allo Stato. Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Gaetano Murana, Gaetano Scotto e Natale Gambino si sono costituiti parte civile nell’udienza preliminare del processo al questore Mario Bo, agli ispettori Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, cioè i poliziotti che secondo la procura di Caltanissetta hanno diretto le false dichiarazioni di Scarantino: per questo motivo sono accusati di calunnia.
Il procedimento – come racconta l’edizione palermitana di Repubblica – comincerà il 20 settembre prossimo al tribunale nisseno e i boss anche citato come “responsabili civili” la presidenza del consiglio e il ministero dell’Interno: istanza accolta dal gip Francesco Lauricella.
“L’udienza preliminare che si celebrerà è un primo importante passaggio ma come dice la sentenza del Borsellino quater, dietro Scarantino non c’è stato un mero errore giudiziario, bisogna piuttosto scoprire le ragioni del depistaggi”, dice a Repubblica l’avvocata Rosalba Di Gregorio, che insieme ai colleghi Giuseppe Scozzola e Giuseppe D’Acquì rappresenta le parti civili “La presenza del responsabile civile è un atto dovuto da parte di chi ritiene di aver subito un danno. Ma anche un atto dovuto da parte delle istituzioni che devono tutelare i propri uomini”, controreplica l’avvocato Nino Caleca, legale di Mario Bo, indagato per gli stessi fatti e che ha poi ottenuto l’archiviazione. Bo avrebbe “diretto” le operazioni di condizionamento del falso pentito Scarantino, mentre Mattei e Ribaudo – che ne curavano la sicurezza – i pm contestano di averlo imbeccato “studiando” insieme a lui le dichiarazioni che avrebbe dovuto rendere nel primo dei processi sulla strage per evitargli incongruenze e di averlo indotto a non ritrattare le menzogne già affermate.
Non tutte le persone condannate sulla base delle dichiarazioni di Scarantino e poi assolte nel processo di revisione si sono costituite parte civile. Sono rimaste fuori dal processo, infatti, Salvatore Profeta e Giuseppe Urso: sono entrambi nuovamente finiti in carcere per fatti di mafia.
Quello contro i poliziotti è solo l’ultimo troncono d’indagine di una storia giudiziaria infinita. Nell’aprile del 2017 la corte d’assise di Caltanissetta, presieduta da Antonio Balsamo, fa condannò all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati di strage e a 10 anni i “falsi pentiti” Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. I giudici dichiararono estinto per prescrizione il reato contestato a Scarantino pure lui imputato di calunnia. Resta ancora oscuro, però, almeno il movente del depistaggio. Solo due anni fa i pm sostennero di non avere elementi idonei per sostenere il giudizio a carico di Bo e di due altri funzionari Salvo La Barbera e Vincenzo Ricciardi e il caso venne chiuso. Dopo l’archiviazione le indagini, però, sono ripartite e si sono arricchite di nuove dichiarazioni di Scarantino e della moglie. Entrambi hanno raccontato le pressioni e le violenze subite dal falso pentito da parte dei poliziotti che pretendevano confermasse le loro versioni. Nel nuovo fascicolo è finita anche parte dell’attività istruttoria svolta nel corso dell’ultimo processo per la strage in cui Bo venne sentito come teste non potendosi più avvalere, dopo la archiviazione della sua posizione, della facoltà di non rispondere.
Nelle motivazioni del quarto processo per la strage Borsellino i giudici della corte d’Assise hanno scritto che quello sulla strage di via d’Amelio è stato “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. “È lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento ad alcuni elementi”, scrive la corte quando parla di “soggetti inseriti nei suoi apparati” che indussero Scarantino a rendere false dichiarazioni.
Ma quali erano le finalità di uno dei più clamoroso depistaggi della storia giudiziaria del Paese? si chiedono i giudici. La corte tenta di avanzare delle ipotesi: come la copertura della presenza di fonti rimaste occulte, “che viene evidenziata – scrivono i magistrati – dalla trasmissione ai finti collaboratori di giustizia di informazioni estranee al loro patrimonio conoscitivo ed in seguito rivelatesi oggettivamente rispondenti alla realtà”, e, sospetto ancor più inquietante, “l’occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato”.