“Se fossimo morti sarebbe stato meglio”. Annuncia un bimbo di 10 anni dagli occhi che hanno visto l’inferno. E non esiste parola estranea alla retorica nel tentativo di spiegare cosa stia accadendo in Iraq, in particolare a Mosul, all’indomani della sconfitta dell’Isis. Ci hanno provato con coraggio e competenza la reporter Francesca Mannocchi e il fotografo Alessio Romenzi, certamente provvisti di esperienza sul campo ma soprattutto di profonda sensibilità. Nel loro Isis, Tomorrow. The lost souls of Mosul – oggi in programma al Lido fuori concorso – si respira l’aria di un presente che prelude al peggiore dei futuri.
Al centro, infatti, sono i cosiddetti “figli dell’Isis”: discendenti di combattenti del califfato morti “martiri” e con loro le donne, madri, mogli e sorelle di questi disgraziati. Sono l’umanità residuale di una violenza che definire efferata è un eufemismo, e sono vittime loro stessi e loro malgrado di una miseria estrema a cui si accompagna lo stato di reietti dalla società, discriminati perché appunto “famiglie dell’Isis”. Il documentario apre sulle rovine della Mosul contemporanea, simbolo di una deriva fisica e psicologica, una città-container di morti viventi che sopravvivono di rabbia, dolore e – per alcuni di loro – della voglia di vendetta. “Quante anime si sono perse per colpa dell’Isis?” è la domanda adulta di un altro bimbo, avrà sì e no 12 anni ma messo a confronto con un coetaneo occidentale potrebbe essere un cinquantenne.
“La retorica orale propria della cultura islamica è la forza e la rovina insieme di queste persone, e questi ragazzi ne sono testimoni emblematici” spiega Mannocchi che ben conosce i territori fisici e psicologici di cui parla. Sono loro, i ragazzini, l’arma dell’Isis perché sono loro i depositari del credo dell’estremismo islamico armato: il film dei due documentaristi li mostra anche nei video di propaganda del califfato mentre sono addestrati alla “guerra santa”. “Solo grazie all’Isis si può raggiungere il paradiso” chiosa un altro adolescente mentre un suo coetaneo racconta di come il padre – assoldato – l’abbia costretto ad arruolarsi. Oggi suo padre è morto ed egli non può perdonarlo. Un’onta di appartenenza che si trasmette di padre in figlio anche quando quest’ultimo non la desideri: l’effetto è la carica di una sofferenza estrema, inimmaginabile per chi non ci sia passato.
E dunque eccoli i vari Mohammed, Omar, Yussouf: i figli dell’Isis minacciati prima e discriminati poi. Il governo iracheno con relativi militari e servizi segreti non li vuole vedere, né vuole aiutare loro accanto alle madri e sorelle sopravvissute seppur consapevoli stiano morendo di stenti perché la guerra non ha risparmiato nessuno, ovviamente. Naturali sono sorte le domande (= esigenze di capire) negli autori – come in chiunque si ponga di fronte a questo testo di stringente attualità: “Come salvare le centinaia di migliaia di bambini cresciuti per tre anni sotto l’Isis? Come scongiurare la possibilità che questi bambini siano il terreno fertile del terrorismo di domani?”. L’Iraq – come la Siria — è un Paese diviso, e la sua immagine al maggio del 2018 (mese delle ultime riprese del documentario) non è lontano da come potremmo immaginare l’inferno, quello di una sofferenza che squarcia il cuore e la coscienza. Il film ha trovato una distribuzione itinerante che si avvierà nel mese di settembre ad opera dell’associazione culturale ZaLab.