“Pensammo una torre, scavammo nella polvere”. Davanti al calcestruzzo sgretolato di Ponte Morandi, questo verso di Pietro Ingrao, non certo riferito alla caducità del cemento, esprime bene la realtà di un Paese che ha rinunciato a costruire ponti e nasconde i propri problemi più profondi dietro la necessità di alzare barriere.
Passato il lutto, ben elaborato dall’algoritmo di Facebook, l’Italia è ritornata a parlare di migrazione come se il futuro del Paese dipendesse dal respingimento dei migranti più che dal rischio di essere inghiottiti dal crollo di un viadotto.
I dati Eurostat dicono che l’Unione Europea ospita sul proprio territorio una percentuale di cittadini non Ue inferiore al 10%. In Italia siamo al 7% ma, secondo un’indagine sull’integrazione dei migranti richiesta dalla Commissione europea, l’“immigrazione percepita” dagli italiani è al 24,6%. Siamo il Paese più ostile e che più sovrastima l’entità dei flussi migratori.
Governare è far credere, scriveva Machiavelli e allora “praticare il dubbio” dovrebbe essere l’atteggiamento di chi è governato nei confronti di chi governa. Una capacità che appare smarrita. Dunque, mentre si costruisce consenso su un’emergenza artefatta, frutto di propaganda politica e scarsa informazione, passano in secondo piano le discrasie su cui la strage di Ponte Morandi dovrebbe far riflettere. TAV Torino-Lione, 4,7 miliardi di euro per l’Italia più 3,4 miliardi coperti dall’Ue. Ponte sullo Stretto, costato ad oggi più di 300 milioni di euro tra studi di fattibilità, ricerche e progetti. Terzo valico, costo stimato 6,2 miliardi di euro. Trans Adriatic Pipeline: 4,5 miliardi di euro. L’autostrada Brescia-Bergamo-Milano, Brebemi, costata 2,4 miliardi di euro e inaugurata nel 2015: 20.000 veicoli al giorno contro i 50.000 previsti, bilanci in perdita e contributi pubblici a sostegno dell’azienda. L’elenco potrebbe continuare a lungo e le spese sono di gran lunga superiori ai 5 miliardi di euro previste nel Def per la gestione dei flussi migratori.
È la torre degli appalti pubblici per edifici e infrastrutture, ai cui costi va aggiunto quello della corruzione: a giugno 2018, un report della Guardia di Finanza riscontrava irregolarità per 2,9 miliardi di euro in 17 mesi. Intanto, la spesa militare italiana tocca i 25 miliardi. Una montagna di denaro.
Senza aprire qui il dibattito sull’utilità o meno di queste spese, sarebbe sensato chiedersi se il mantra delle grandi opere regga in un Paese che non riesce a garantire la manutenzione delle infrastrutture esistenti, nonostante la commozione dell’opinione pubblica e le dichiarazioni della politica arrivino sempre puntuali all’appuntamento con le macerie. Lo abbiamo visto con i terremoti: L’Aquila 2009, Emilia Romagna 2012, centro Italia 2016 e 2017. Sul rischio sismico l’Italia rimane un Paese fermo. “Casa Italia”, il programma di messa in sicurezza del territorio lanciato nel settembre 2016, dopo il terremoto di Amatrice, ha prodotto ad oggi l’ennesimo report pieno di incongruenze, e poi tanti annunci, pochi soldi e una decina di cantieri pilota che stentano a partire. A Ischia, dopo il terremoto del 21 agosto 2017, le macerie sono ancora tutte lì insieme a 2.400 sfollati e 372 persone ancora costrette a vivere in albergo. Colpa dei migranti?
La torre di un’Italia che sogna di accelerare sulle infrastrutture, la polvere di un Paese che crolla, lo Stato che arretra e holding che costruiscono immense fortune.
Autostrade per l’Italia ha fatto sapere che negli ultimi 5 anni ha speso 2,1 miliardi di euro per la manutenzione, la sicurezza e la viabilità ma, secondo i bilanci, nello stesso periodo, tra dividendi e riserve disponibili, sono finiti nelle casse di Atlantia circa 4,8 miliardi di euro, più del doppio delle spese in manutenzione sostenute.
In compenso, il caso Atlantia-Benetton ha dimostrato quanto le privatizzazioni, più che garanzia di efficienza, siano il frutto di una disinvolta continuità tra classe politica, imprenditoria e finanza. La Società Autostrade Concessioni e Costruzioni S.p.a. nasceva nel 1950 per volontà dell’IRI che decide di privatizzarla nel 1999. Gian Maria Gros Pietro, nominato nel Comitato per le Privatizzazioni voluto da Draghi nel 1994, divenne Presidente dell’Iri nel 1997, con il mandato di privatizzarne le maggiori controllate. Dal 2002 al 2010 ha presieduto Atlantia che di quelle privatizzazioni era frutto. Oggi presiede il Cda di Intesa Sanpaolo. Paolo Costa, ministro dei Lavori pubblici nel governo Prodi I, dopo le dimissioni di Antonio Di Pietro, e ministro delle Infrastrutture nel 2006, nel 2010 ricoprì la carica di presidente del consiglio di amministrazione della SPEA, società del gruppo Atlantia che ha ricevuto la visita della guardia di finanza nell’ambito delle indagini sul crollo di Ponte Morandi. Nel 2016, Atlantia vince la gara per la privatizzazione degli aeroporti francesi di Nizza, Cannes-Mandelieu e Saint-Tropez e Paolo Costa viene inserito nel consiglio di sorveglianza degli stessi.
C’è poi il capitolo dei finanziamenti alle campagne elettorali: 1,1 milioni di euro di donazioni equamente distribuiti da Benetton ai partiti di centrodestra e centrosinistra nel 2006. Pochi mesi dopo, il 12 ottobre 2007, ancora sotto il governo Prodi, viene sottoscritta la Convenzione Unica tra Anas e Autostrade, divenuta efficace per legge nel 2008 con il cosiddetto decreto “Salva Benetton”, sotto il governo Berlusconi.
Quanto a Benetton e alla compatibilità tra le logiche che reggono una multinazionale e l’interesse collettivo, sarebbe bastato guardare all’operato del gruppo in Argentina. Nel 1991, con un investimento di 50.000.000 di dollari, più o meno il costo di 100 appartamenti a Roma, Benetton acquista la proprietà di 900.000 ettari di terra in Patagonia, un’estensione più o meno equivalente a quella della Basilicata. Su quelle terre però, da oltre un secolo, insistono le rivendicazioni dei nativi Mapuche, violentemente repressi dal governo Argentino. Vicende su cui Benetton tace. Una realtà molto diversa dall’immagine costruita dalla pubblicità.
“C’è, chi dà la colpa alle piene di primavera, al peso di un grassone che viaggiava in autocorriera: io non mi meraviglio che il ponte sia crollato, perché l’avevano fatto di cemento “amato”. Invece doveva essere “armato”, s’intende, ma la erre c’è sempre qualcuno che se la prende (…). In conclusione, il ponte è colato a picco, e il ladro di “erre” è diventato ricco” (Gianni Rodari – 1962).