L’Italia per ora ha detto no alla IEI (Iniziativa di intervento europea), promossa da Emmanuel Macron e di cui fanno parte nove Stati tra cui la Germania e la Gran Bretagna, nonostante quest’ultima sia uscita dall’Unione europea. Si parla di una collaborazione tra forze armate coinvolte per agire insieme, garantendo all’Europa una difesa ancora più forte attraverso scambi di informazioni e competenze tra stati maggiori ed esercitazioni comuni in modo da creare una cultura strategica europea. In questo caso l’Italia ha fatto bene per ora a defilarsi visto che si tratta dell’ennesimo tentativo di un qualcosa ancora nebuloso o comunque l’ennesima struttura da sovrapporre ad altre già esistenti nel settore della Difesa europea a cominciare dalla PeSCo (Permanent Structured Cooperation) a cui hanno aderito 25 Stati.

Il progetto di cooperazione, noto appunto come PeSCo, è previsto dal Trattato di Lisbona, ma per quasi venti anni è rimasto una disposizione non attuata degli accordi. La situazione di stallo si è sbloccata grazie all’iniziativa portata avanti da Germania e Francia, che hanno rilanciato il progetto come risposta alla Brexit. La PeSCo prevede che gli Stati firmatari assumano numerosi impegni vincolanti la cui corretta implementazione dovrà essere periodicamente verificata. I più importanti sono: aumentare le spese militari per “avvicinarsi” alla soglia del 2% del Pil, aumentare le spese militari in termini reali e non solo relativi al Pil, partecipare alla creazione di una forza di reazione rapida europea, integrare in maniera maggiore gli eserciti europei (trasporti, munizioni, ruoli), aumentare la compatibilità tra gli equipaggiamenti militari dei vari eserciti.

C’è comunque una frase chiave nel PeSCo factsheet che recita: “PeSCo è una infrastruttura e un processo, basati su un Trattato, [creato] per approfondire la cooperazione di difesa tra gli Stati Membri Ue che siano capaci e intenzionati a farlo”. Quindi dipende tutto dalla volontà politica dei singoli Paesi membri di usare tale strumento; tale volontà, spesso soggetta a interessi divergenti in politica estera, di fatto non si concretizza mai in un intento condiviso e, pertanto, gli strumenti esistenti restano inutilizzati. Serve se gli Stati europei hanno intenzioni di usarlo per realizzare qualcosa insieme. Quindi c’è da chiedersi che cosa gli Stati europei sono disposti a realizzare insieme visto che la stessa politica estera comune lascia molto a desiderare?

Prima di Macron ci aveva provato qualche anno fa la Germania creando un mini esercito europeo. Nel 2015, l’undicesima brigata aerea olandese era stata integrata in una nuova divisione tedesca e nel marzo del 2017 la 43esima brigata meccanizzata olandese era entrata sotto il comando tedesco aderendo alla Prima divisione blindata tedesca. A quanto pare, sotto l’etichetta del Framework Nations Concept, la Germania ha lavorato alla creazione di una rete di mini-eserciti europei con parti olandesi, rumene e ceche, guidata dalla Bundeswehr.

La cronologia storica ci riporta infine agli Eu Battlegroups fortemente sostenuti ancora dalla Germania e creati nel 2007. I Battlegroups consistono in 18 battaglioni: 14 di 1.500 soldati e 4 di 2.500 soldati. Vanno a rotazione, in modo che almeno due siano disponibili in ogni momento, con 4.000 uomini pronti per essere inviati ad almeno 6.000 km di distanza da Bruxelles. Un Battlegroup è la più piccola unità militare in grado di agire autonomamente sul terreno, o in grado di agire come forza di ingresso per arginare una situazione di crisi prima dell’invio di un contingente maggiore. La sua principale caratteristica è di possedere una capacità di risposta rapida e flessibile. Nonostante le ripetute crisi umanitarie e di sicurezza l’utilizzo dei Battlegroups si è finora limitato ad una serie di problematiche legate a differenti concezioni del ruolo e delle funzioni dei Battlegroups nonché alla frammentazione della catena di comando.

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