“La vera viennese deve i suoi seni sodi alla crema Feschof dx sxorm”. Nei giorni prima dello scoppio della Prima guerra mondiale sui giornali austriaci campeggiava la pubblicità della crema per il seno. Erano sull’orlo del baratro e non se ne rendevano minimamente conto.
Poco fa sulla tv di questo sperduto campeggio della Dalmazia sono apparsi Matteo Salvini e Viktor Orban. E noi tutti non ci abbiamo fatto neanche caso. Nella sala era un guazzabuglio di voci, risa, un tintinnare di bicchieri tra frammenti di musica. Una perfetta sera di fine estate, prima che le compagnie vadano in frantumi come il piatto caduto alla cameriera.
Ora sono nella mia minuscola tenda e non riesco a dormire. Mi tornano sempre in mente le facce ghignanti di Salvini e Orban. L’immagine del piatto di ceramica che va in pezzi. E mi chiedo com’è possibile che io adesso pensi a dormire invece che tormentarmi per stare sveglio. Il punto non sono soltanto Salvini e Orban. La questione è l’Europa che va in pezzi mentre noi dormiamo.
Ieri sono tornato nei luoghi dove erano nati i miei nonni, in Istria. L’anno prima della guerra tutti i parenti insieme avevano comprato una grande casa sulla riva del mare. Sono andato visitarla per la prima volta. Oggi dove per una breve estate si sono ritrovati i miei antenati c’è un casinò. Quella che immagino sia stata la sala da pranzo è invasa dalle slot machine e da pensionati dal volto paonazzo che continuano a perdere a sperare. Due signorine con il papillon si aggirano per le stanze ricoperte da un’assurda moquette a fiori viola. Sul pavimento è stesa una passatoia vinaccia che sale ai piani superiori dove non si può accedere senza tessera. Chissà… “Questa casa una volta era nostra”, ho detto alla cassiera cercando una patetica rivincita. Ai miei figli che mi chiedevano come possa succedere che tu dalla sera alla mattina perda la casa, ho saputo rispondere soltanto: “È la guerra”.
Non mi interessano adesso rivendicazioni e rivisitazioni storiche. È andata così. Ma oggi con i miei figli posso tornare in questi posti. Provare la sensazione unica degli esuli e dei loro discendenti: sentire di essere già stati in un luogo dove non sono stati mai.
Io sono di qui. Nel senso letterale, il mio corpo è fatto anche della materia di questi luoghi, l’acqua, il cibo. Perfino la luce mi viene da pensare.
E ora posso tornare. Che sia Italia o Croazia, è comunque Europa.
Allora, mentre me ne sto qui chiuso e il cielo è appena oltre il telo della tenda, penso a cosa stiamo rischiando di perdere. Noi, i tedeschi che dormono proprio accanto, la famiglia olandese nella roulotte.
Non voglio farla semplice. Ognuno ha le sue responsabilità, a cominciare da questa Europa che ha difeso le banche più delle persone. Che ci chiede sacrifici e non sa più spiegarci il perché.
Ma mi verrebbe anche da alzarmi nel cuore della notte e andare dai vicini tedeschi per chiedere loro: “Ma credete davvero che l’Europa possa essere soltanto una Germania più grande?”. Credete davvero di aver dato miliardi alla Grecia o sapete che in fondo sono serviti per salvare la vostre banche? Vorreste davvero un continente dove tutti indossano i vostri terribili sandali?
Già, sarebbe ben poca cosa l’Europa senza la voce di tutti. Senza il rigore e il senso civico tedeschi; senza l’adattabilità e la leggerezza (in senso calviniano) italiane.
Ma anche noi, che oggi secondo il modello Salvini-Di Maio, siamo così bravi a dare le colpe agli altri senza assumerci responsabilità crediamo davvero che si possa andare avanti così? Con un Paese spezzato in due tra nord e sud. Con la corruzione che si insinua ovunque, le mafie che sono in cancro per l’economia e l’evasione fiscale, prima palestra di disegalitè e non certo di fraternitè.
Abbiamo colpe tutti. Ma forse la prima cosa che possiamo fare è provare a cambiare noi stessi. Ricordarci cosa abbiamo e rischiamo di perdere: siamo il luogo migliore dove vivere nell’intera storia dell’umanità. Qui, oggi. Le scuole, la salute, la tutela dei diritti, la democrazia, non è stato così MAI.
Durano generazioni le cicatrici dell’esilio. Io che pure non l’ho vissuto direttamente ne ritrovo in me i segni. Come quel senso di essere mondo a sé, un po’ contro tutti: nel lavoro, nella politica, perfino nelle amicizie. Sì, forse è un segno dell’antico dolore. A volte, però, venire da gente profuga aiuta a cercare radici che consolidino il terreno invece che sbriciolato. Un’identità che non escluda, ma unisca.
Non ci avevo mai fatto caso prima di questa notte sull’isola di Cherso (o Cres). In tanti anni, quasi mai i miei nonni mi hanno parlato di quella casa perduta. Non hanno decantato la vista sul golfo, nemmeno il parquet o la cucina con il lavandino di marmo. Niente. Mi raccontava invece, mio nonno, di quando da ragazzo arrivava proprio su quest’isola. E saliva su per questi sentieri circondati da muretti di pietra bianca, di fichi e ulivi. Andava fino in cima all’isola per prendere i rami del sangrego (forse l’elicriso). Questo più di tutto gli mancava della sua terra, un profumo. Negli anni dell’esilio ne conservava frammenti nelle tasche dei vestiti, in auto nel cassetto del cruscotto.
Non riesco a dimenticare le sue parole stanotte. Vedo noi tutti aggrappati alle case e alle cose che l’Europa ci deve dare. E nessuno che voglia conservarne il profumo.