Un travaso di bile elettorale ha catapultato ai vertici del governo una congrega assortita tra chi asserisce che il Pil aumenti con il caldo, chi ripete che l’allunaggio è un set di Hollywood, chi ha fatto sparire 49 milioni di soldi pubblici e chi crede alle scie chimiche, ma esecra i vaccini.
Quindi non deve stupire che in materia fiscale costoro si siano messi in testa (oltre allo scolapasta) anche la convinzione che si possano allegramente spendere somme astronomiche per finanziare reddito di cittadinanza, flat tax, pensionamenti anticipati e infrastrutture a go go. Nella letteratura accademica più sofisticata cotali statisti vengono definiti “I fiscazzari”.
Grazie a un generosa sponsorizzazione della Fondazione Soros, volto a eradicare l’analfabetismo funzionale, questo post oggi contiene una lezione ispirata da Stefanie Stantcheva, economista di Harvard.
Il livello di tassazione che un governo impone, sia sul patrimonio che sul reddito, dipende da due elementi chiave:
1. Le preferenze della maggioranza. L’importanza sociale, il valore etico o – se vogliamo essere più prosaici – la priorità politica che si assegna alle varie forme di patrimonio o di reddito. Ad esempio un euro di reddito di una famiglia numerosa, mantenuta grazie a un solo, magro, stipendio viene valutato più importante di un euro guadagnato da chi ha la barca a Montecarlo, il Rolex d’oro e l’attico a New York.
Di conseguenza la tassazione del reddito in quasi tutti i Paesi è progressiva e i beni di lusso sono spesso soggetti a un’aliquota Iva più alta. Le preferenze collettive sono anche legate al concetto di merito. Ad esempio se si ritiene che il ricco sia tale perché lo abbia meritato (in virtù del suo lavoro, dei suoi studi, dei suoi sacrifici, dei rischi che ha affrontato ecc.) allora la progressività è moralmente meno giustificata e di conseguenza va attenuata. Ulteriore esempio: la priorità politica ha stabilito che la prima casa è un patrimonio da tutelare, al contrario degli altri immobili, e quindi l’ha esentata dall’Imu.
2. I risultati pratici. Il governo nel definire il livello di tassazione non ha completa discrezione, deve fare i conti con la reazione dei tassati. Ricorrendo a un esempio estremo, a un’aliquota del 100% la gente reagisce smettendo di lavorare. Altro esempio: quando Monti impose una tassa su yacht e barche di lusso distrusse il settore della nautica da diporto in Italia, riuscendo a riscuotere solo pochi spiccioli. E infatti tre anni dopo la tassa fu abolita. In parole semplici, bisogna tener presente che la gente comune cerca di sottrarsi alle pretese del Leviatano pubblico. In particolare, le imposte sui redditi da capitale possono essere più facilmente evase, mentre quelle sugli immobili sono inesorabili.
Gli stessi elementi influenzano anche le decisioni di spesa. Sempre per rimanere all’Italia, il taglio dei vitalizi ai parlamentari è determinato dalla preferenza maggioritaria tra gli elettori del M5s che ritengono esorbitanti e moralmente riprovevoli gli emolumenti auto-assegnatisi dai parlamentari in passato. Lo stesso elettorato invece ritiene che chi non lavora debba ricevere un aiuto dalla collettività sotto forma di reddito di cittadinanza, ritenendo che la disoccupazione derivi da sfortuna o da ingiustizie sociali a cui lo stato deve porre rimedio.
Alla luce di questi elementi, la lezione – finanziata dalla Fondazione Soros – prende in esame una vexata quaestio, la flat tax, perché introduce nella politica fiscale del governo gialloverde un evidente corto circuito. La flat tax (che comunque mantiene elementi di progressività a favore dei redditi bassi se combinata con deduzioni ed esenzioni), infatti, si basa su tre argomenti:
1. Di fatto, sposa il criterio meritocratico in quanto un euro addizionale del reddito di un ricco viene trattato al pari degli altri, senza penalizzazioni “moralistiche”.
2. Enfatizza un aspetto pratico, cioè che se l’aliquota è bassa e le regole sono semplici, la gente smette di dedicare tempo e risorse a evadere o eludere e quindi il gettito aumenta.
3. Ritiene che la crescita economica sia spinta dall’offerta, in quanto i ricchi che risparmiano sulle tasse investono quei capitali in attività economiche sottraendoli alla manomorta pubblica e creando occupazione.
Il corto circuito è innescato dal fatto che il reddito di cittadinanza propugnato dai pentastellati si fonda su due convinzioni opposte:
1. La meritocrazia non esiste, anzi il disoccupato è una vittima e il ricco deve pagargli un reddito.
2. La crescita è spinta dalla domanda, quindi dando soldi ai poveri che hanno maggiore propensione al consumo (e togliendoli ai ricchi che sono dei rentier parassiti e avari) si aumentano i consumi.
Ci sarà molto da divertirsi quando queste due visioni confliggenti si scontreranno durante la stesura della Legge di stabilità. I fiscazzari si illudono di risolvere tutto battendo i pugni sul tavolo a Bruxelles o altrove. Purtroppo però sarà lo spread a battere davvero i pugni e di certo non sul tavolo.