“Settembre poi verrà ma senza il sole”, cantava Peppino Gagliardi nel 1970. Potrebbe diventare l’inno ufficiale degli imprenditori che hanno rapporti problematici, ma non ancora compromessi, con gli istituti di credito. Perché il rientro dalle vacanze si presenterà davvero senza quel metaforico “sole” rappresentato dal rubinetto del credito che, dopo 10 anni di sistematica e costante contrazione e contrariamente alle dichiarazioni propagandistiche degli ultimi tempi, non ha sicuramente ripreso ad erogare finanza alle piccole-medie imprese, che rappresentano il 90% del tessuto produttivo del nostro Paese.
I segnali sono inequivocabili: numerose segnalazioni da parte di piccoli imprenditori meravigliati dal sollecito ricevuto dalle banche per la restituzione di quanto ottenuto in prestito. Le banche hanno problemi di bilancio evidenti: non riescono più a fare (eticamente) fatturato e la riduzione dei costi (personale, logistica, Npl) ha raggiunto livelli ben difficilmente superabili.
La disciplina di Basilea sull’esercizio del credito – ferrea sulla carta ma permissiva nella sostanza – impone inoltre obblighi di accantonamenti per sostenere la probabilità di default della aziende affidate e tutelare quindi il risparmio. E l’accantonamento è un costo. Le banche, per tutelarsi, cercano quindi di ridurre il rischio nei confronti dell’azienda affidata, cioè chiedono alla stessa la restituzione dei soldi che non ha (la crisi ha colpito tutti). Si apre quella fase definita “pre-contenzioso“, una subdola formula che si manifesta con le muscolari minacce dei funzionari di banca che promettono di girare la pratica all’ufficio contenzioso, nel caso non si rientri immediatamente dalla scopertura, per le successive azioni giudiziarie di recupero.
È puro terrorismo psicologico. Le banche non hanno alcun interesse a “girare”, per i previsti maggiori accantonamenti, le posizioni a “contenzioso” e tentano quindi dapprima di recuperare dalla azienda quanto più possibile. O, quanto meno, tentano di “fortificare” una posizione che molto spesso, per effetto di tutte le irregolarità commesse (non solo usura e anatocismo), è più debole di quanto si possa immaginare.
Nel momento in cui hanno deciso di “disimpegnarsi” dalla gran parte dei rapporti bancari con rating costosi (in termini di accantonamenti), gli istituti di credito cercano in ogni modo di ottenere la regolarizzazione formale delle singole posizioni prima di formalizzare il contenzioso (lettera di revoca dagli affidamenti e messa in mora) e di attivare le garanzie (fideiussioni), cioè di richiedere i soldi ai garanti – se l’azienda non ha liquidità – con la possibilità di agire sui beni immobili degli stessi.
Quest’opera è svolta in maniera surrettizia e talvolta scorretta, perché “camuffata” attraverso:
1. Offerta di un piano di rientro con una clausola che “manleva le banche da ogni responsabilità in merito alla concessione del finanziamento e che determina, da parte del debitore, il riconoscimento del saldo” e quindi una “blindatura” di fronte al diritto di contestarlo successivamente;
2. Concessione di un finanziamento (a tre-cinque anni) che non costituisce nuova finanza per l’azienda, ma serve solo a eliminare la pregressa esposizione di conto corrente (anche in questo caso il nuovo contratto presenta la clausola di cui sopra).
Questa pratica rappresenta, come dicevamo, l’estremo tentativo – ancorché tardivo – per la “sistemazione” dei vecchi affidamenti delle cui irregolarità il debitore non ha consapevolezza. Gli inviti, in questa fase apparentemente concilianti, sottendono la volontà di impedire che l’azienda possa, anche giudizialmente, sollevare eccezioni di sorta.
Cosa fare? Ai primi “segnali” di approccio inflessibile, occorre anticipare la banca e contrastare il descritto comportamento avviando – nella tutela dei propri diritti – una preventiva azione giudiziaria al fine di proporre tutte le questioni giuridiche (non solo usura e anatocismo, repetita iuvant) che l’istituto di credito avrebbe voluto, surrettiziamente, evitare e quindi trasformando una criticità evidente in una seria opportunità per resistere a istanze tanto pressanti quanto vessatorie.
Acquisire tale consapevolezza conferisce al debitore il potere contrattuale necessario per trattare da pari a pari con la banca invertendo in tal modo il rapporto di forza che per decenni l’ha vista come “contraente debole“. Questa consapevolezza necessita però di coraggio, di tempismo e di attenzione da parte chi deve decidere il suo futuro.