“Non ci sono più magistrati che intendono sacrificarsi per cercare la verità sulle stragi come Nino Di Matteo“. A un mese dal deposito delle motivazioni della sentenza sulla Trattativa e a due da quelle del Borsellino Quater è stato il fratello del giudice ammazzato in via d’Amelio a dare una fotografia dell’attuale situazione giudiziaria italiana: salvo alcune eccezioni, nessuna procura sembra essere attiva sulla ricerca dei colpevoli delle stragi. Sul palco della Festa del Fatto Quotidiano, ha infatti presentato il libro di cui è stato curatore “la Repubblica delle stragi” (edito da Paper First) insieme a uno degli autori Fabio Repici, al vicedirettore del Fatto Marco Lillo e al coordinatore di Fq Millenium Mario Portanova. Una riflessione, quella di Borsellino, che si ritrova nella stessa prefazione del testo a firma del direttore del Fatto Marco Travaglio. “Nel corso del nostro lavoro”, ha detto Repici, “ci siamo resi conto che non c’è un grande vecchio che ha regolato tutte le stragi. Ma molti nomi e strutture che si ripetono”. Da qui Borsellino ha chiesto che si riparta: “Sono ottimista, ma la strada è ancora impervia. E non credo potrò avere la fortuna di vedere quel processo che io mi aspetterei”. Quindi riferendosi alla sentenza sulla Trattativa Stato-Mafia che condanna Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia, ha detto: “Viene indagato il corrotto, ma non il corruttore. Anche lui (Silvio Berlusconi ndr) ha un’età per cui non lo vedrò sul banco degli imputati”.
Salvatore Borsellino nell’arena della Versiliana, come ogni volta in cui è ospite del Fatto, è stato accolto dall’emozione e l’affetto del pubblico. “Propongo un minuto di silenzio per Rita”, ha detto uno degli spettatori chiedendo che venisse ricordata la sorella scomparsa solo qualche settimana fa. “Io non faccio più minuti di silenzio”, ha risposto Salvatore, “a me piace gridare i nomi delle persone che non ci sono più”. E ha quindi gridato: “Rita Borsellino“, a cui la folla ha risposto con grida di solidarietà.
Il fratello del magistrato ucciso ha quindi parlato di quel libro in cui, ha detto, “c’è tutta la mia vita”. Un libro che parla dei cosiddetti “mandanti a volto coperto” o quelle entità che collegano direttamente gli eccidi accreditati a Cosa nostra e al terrorismo nero alle più alte sfere dello Stato, quindi le stragi degli anni di Piombo con quelle degli anni ’90”.
“Quando abbiamo cominciato a scrivere il libro”, ha esordito Repici, “alcuni di noi avevano la memoria di cosa avevano fatto personaggi come Danilo Dolci, Michele Pantaleone, Pio La Torre”. Personalità legate al mondo della sinistra e che hanno lavorato in difesa della giustizia e della democrazia italiana. “Io vorrei dal governo del cambiamento un aiuto alla ricerca della verità che non deve essere accollata solo ai familiari delle vittime”. Anche per questo è stato scritto la Repubblica delle Stragi: “E’ un libro che ha avuto l’ambizione di dire che in questo Paese non sono capitate vicende criminali come fossero delle monadi, tutte eseguite autonomamente. Uno dei nodi centrali della sentenza Borsellino quater dice proprio che insieme a Cosa nostra hanno operato altri e che c’è stato un depistaggio di Stato. La Corte d’assise chiude con una domanda: ‘Quali motivazioni poteva mai avere’ chi ha ordito quel depistaggi?”. E Repici ha concluso: “Ci siamo resi conto che non c’è un grande vecchio che ha regolato tutte le stragi. Ma molti nomi e molte strutture che si ripetono“.
Per il vicedirettore del Fatto Quotidiano Marco Lillo bisogna ragionare come si ci fossero stati due Stati: “Ricordo”, ha dichiarato, “una intercettazione di Silvio Berlusconi che ride con Marcello Dell’Utri e Fedele Confalonieri nel 1986 quando esplode la cancellata di casa. A quel punto chiama Dell’Utri e la prima cosa che gli dice è: ‘E’ stato Mangano’. Considerato che Berlusconi si fidava così tanto di Mangano da affidargli i figli per portarli a scuola, viene da chiedersi perché dai tuo figlio a uno che mette le bombe nei cancelli? Comunque quando Dell’Utri nega che sia stato Mangano, Berlusconi replica: ‘E’ stato lui, un altro ti manda una raccomandata, lui ti mette una bomba’. E’ la bomba del dialogo“. Così come, secondo Lillo, sono bombe del dialogo quelle contro Maurizio Costanzo e la Chiesa, mentre l’Italia era ancora sconvolta dalla morte di Falcone e Borsellino. “Questo per dire: è scorretto leggere la vicenda come se c’è da un lato lo Stato e di là c’è l’anti Stato. In quegli anni ci sono stati due Stati: uno Stato che combatteva la mafia sapendo di andare incontro alla morte, dall’altra uno Stato che capiva il significato di bombe e stragi e poi chiudeva un armistizio che è scritto con il sangue di chi ha lottato contro la mafia”.
Salvatore Borsellino ha continuato parlando della sua storia personale e del percorso, lungo e difficoltoso, per la ricerca della verità: “Paolo non è un eroe”, ha detto, “era una persona che voleva fare il magistrato e stava combattendo un nemico che era la criminalità organizzata. E’ come un soldato andato in guerra per combattere e poi ucciso da un nemico che gli è arrivato alle spalle. E’ soltanto un uomo che voleva fare il suo dovere”. Anche per questo, ha detto Borsellino, “il momento più terribile per lui è stato quando ha scoperto che c’erano dei traditori dentro lo Stato”: “Di noi fratelli sono rimasto solo io. Ma i traditori e gli assassini non dormano sonni tranquilli. Finché ci sarà un solo Borsellino su questa terra non dovranno avere pace. Dopo questa parziale verità, c’è una strada altrettanto ardua. Io non potrò percorrerla fino alla fine. Ma ci saranno altri giovani che la faranno per me alzando un’agenda rossa”. Per Borsellino, una volta che la sentenza Borsellino quater ha messo nero su bianco il fatto che c’è stato un depistaggio di Stato, “significa che chi lo ha ordito o ha partecipato all’omicidio o era in contatto con una fonte. Io voglio sapere chi ha voluto questo depistaggio. Non io, non i familiari delle vittime, tutti dobbiamo pretendere la verità”. E ha chiuso attaccando l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: “Distruggendo le intercettazioni ha leso il prestigio delle istituzioni che rappresentava: perché se ora io dico che in quei dialoghi stava promettendo l’impunità a Mancino, lui non può smentirmi. Questo ha leso la dignità dello Stato italiano ed è il più grande vilipendio fatto alla Repubblica italiana”.
A conclusione del dibattito, Mario Portanova ha ricordato un passaggio della prefazione del libro a firma del direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio, dove si legge “sono sempre meno i magistrati disposti a sacrificare la carriera per indagini come queste”. E su questo è intervenuto Repici: “E’ un momento particolare nella nostra magistratura perché per puro paradosso, oggi i giudici nella ricostruzione dei fatti sono più avanti dei pubblici ministeri. Successe a piazza Fontana, sulle scalate bancarie a Milano e la cosa è deflagrata con la sentenza del Borsellino quater. Quali sono allora le prospettive? Quando il Csm convoca Nino Di Matteo mica gli vuole far pagare l’operato a Caltanissetta del 1994. Piuttosto deve essere punito per le indagini successive”. E ha chiuso: “E’ difficile trovare pm che abbiano il coraggio di andare avanti nella ricerca della verità. Oggi sono pochissime o quasi nessuna le procure antimafia disposte a operare su questi temi”.