La bomba che ha ucciso il capo della Repubblica autoproclamata era in una lampada di un bar. E sullo sfondo c'è il racconto di Limonov: "Si stava già preparando il licenziamento del leader filorusso". Il presidente russo pubblica un lungo necrologio: "Così viene impedita una soluzione pacifica"
Chi ha organizzato l’attentato che venerdì 31 agosto, alle 17 e 16, è costato la vita ad Alexander Zakharchenko, 42 anni, presidente dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk? Qualcuno che conosceva le abitudini del leader separatista filorusso, uomo assai cauto: la bomba che ha ucciso lui ed altre quattro persone e ne ha ferite altre sei, tra i quali un bimbo, è stata fatta esplodere al Café Separ, nel centralissimo bulevar Pushkin, di proprietà del capo della protezione della sicurezza nazionale, dunque un luogo considerato ben protetto. Il presidente di Donestk si trovava al Separ per commemorare Josik Kobzon, il “Sinatra russo”, del quale era amico. Kobzon, infatti, simpatizzava per i separatisti filorussi del Donbass, dove era nato nel 1937 in una famiglia ebrea, ed era finito nella lista nera delle sanzioni Usa. Nel 2014 era salito sul palco a Donestk insieme a Zakharchenko, che lo aveva nominato console onorario. Amicizie opache: l’Fbi aveva indagato sul popolare cantante russo fin dal 1995 perché lo sospettava di far parte di un giro di affari illegali (traffico di droga e di armi, riciclaggio di denaro). Nel 2003 un tribunale svizzero gli aveva confiscato 750mila dollari. Nella sua biografia ufficiale, Zakharchenko figura come figlio di un minatore, ex eletromeccanico ma poi diventato uomo d’affari. Alexander Timofeev, ministro delle Finanze rimasto ferito nell’attentato, risulta possedere 15 milioni di dollari. La ribellione rende. Intanto, oggi, un altro capo è stato ucciso a Donetsk. Prova che i regolamenti tra clan sono appena cominciati.
L’ordigno che ha ucciso Zakharchenko, secondo la polizia scientifica, sarebbe stato posto in una lampada del bar. Il che presuppone un probabile coinvolgimento nell’assassinio di qualcuno che fa parte dell’entourage di Zakharchenko. Che fosse nell’aria un’operazione di questa portata lo confermerebbe Eduard Limonov, capo dei nazional-bolscevichi russi: ha raccolto fondi per la guerriglia dei separatisti, ha mandato nel Donbass parecchi volontari tra i quali lo scrittore Zachar Prilepin. Dice Limonov: “Il 30 agosto mi hanno detto che si stava preparando il licenziamento di Zakharchenko e che il capo della Repubblica Popolare di Donetsk dovrebbe diventare Alexander Khodokovski”, uno dei suoi luogotenenti. Indiscrezione peraltro anticipata il 28 agosto dall’agenzia Versia.ru. Insomma, secondo il sulfureo Limonov, si tratterebbe di un cambio di scagnozzo.
Ovviamente, secondo un rituale già collaudato in precedenti eliminazioni di capi della guerra, Kiev e Mosca si sono scagliate reciproche accuse. Due ore dopo l’attentato, Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo, è stata la prima ad aprire il fuoco diplomatico: “Non è la prima volta che il regime di Kiev utilizza simili metodi per eliminare chi non è d’accordo con lui”. La replica è arrivata dallo Sbu, i servizi di sicurezza ucraina, che smentivano ogni implicazione e rilanciavano: “Secondo le nostre informazioni, la morte di Zakharchenko sarebbe il risultato di conflitti criminali interni, in seno all’élite separatista filorussa. Non escludiamo un tentativo dei servizi segreti russi per eliminare un personaggio odioso che imbarazzava i russi e di cui loro non avevano più bisogno”.
La novità è il lungo necrologio di Putin, rilasciato sul sito del Cremlino: “Era un vero leader popolare, un uomo coraggioso e risoluto, nonché un patriota del Donbass. La Russia sarà sempre con voi. Spero che la mente e gli esecutori di questo delitto saranno portati davanti alla giustizia. Il vile assassinio è un’ulteriore prova che coloro che hasnno scelto la via del terrore, della violenza e dell’intimidazione non voglio cercare una soluzione pacifica e politica al conflitto”. Queste ultime parole sono la chiave di lettura dell’attentato, o meglio l’alibi per continuare a tenere alto il livello di tensione nell’Est dell’Ucraina, in un momento in cui la Russia si ritrova di nuovo coinvolta direttamente in Siria per aiutare Assad a sgominare Idlib, l’ultimo baluardo dei ribelli che ancora controllano una provincia in cui vivono tre milioni di civili, un’enclave anti-Damasco sotto l’influenza turca.
La loro sorte dipende dalle trattative tra Mosca ed Ankara, Erdogan vorrebbe evitare la battaglia per tutelare i propri interessi geopolitici (i primi “osservatori” militari turchi sono stati inviati a Idlib nell’ottobre del 2017). Ci sono a monte gli accordi di Astana con gli altri due “padrini” di Assad, ossia la Russia e l’Iran. Ankara vi aveva assunto la funzione di distensione e di progressivo disarmo dei gruppi jihadisti. Nell’ultimo mese, invece, la Turchia è stata costretta a rinforzare una decina di posti d’osservazione, prevedendo quel che sarebbe successo, ossia il via all’offensiva militare di Damasco (coi timori di attacchi chimici). Mosca ha inviato due fregate nel Mediterraneo orientale, per lanciare segnali dissuasivi all’Occidente e ribadire che la questione siriana è cosa sua. Ankara è parecchio coinvolta: come ha scritto il giornale L’Orient-Le Jour di Beirut, la Turchia è messa “di fronte alla sua più grande preoccupazione strategica in Siria, rappresentata dalle Unità di Protezione del Popolo (Ypg), l’ala siriana del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (il Pkk). Alcuni ufficiali curdi hanno fatto sapere che potrebbero sostenere Damasco in un’offensiva a Idlib”. Il guazzabuglio siriano si complica vieppiù: i curdi prevedono che dopo Idlib nel mirino di Assad entrerebbe Afrin, da dove l’esercito turco ha scacciato le unità dell’Ypg otto mesi fa.
Nel frattempo Mosca ha annunciato le più grandi manovre militari dal tempo delle esercitazioni sovietiche Zapad-1981. Quelle preparate da Putin si chiameranno Vostok 2018, e sono previste dall’11 al 15 settembre nelle regioni centrali ed orientali della Russia (vi partecipano battaglioni cinesi e mongoli), con l’impiego di 300mila uomini dislocati, 36mila carri armati e corazzati, più di mille jet ed elicotteri, nonché la flotta del Nord e quella del Pacifico in connessione. Giochi di guerra, spiega il Cremlino, giustificati dall’aggressività e dall’ostilità crescenti nei confronti della Russia: la presenza di 3200 militari cinesi vorrebbe essere la conferma che l’asse Mosca-Pechino è di nuovo solido (ma gli interessi cinesi non collimano con quelli putiniani).
In questo Risiko internazionale si inserisce la contromossa della Nato, che ha in programma lunghe esercitazioni in Norvegia – cioè al confine con la Russia e questo è motivo di grande frizione con il Cremlino. La Trident Juncture durerà un paio di mesi e coinvolgerà oltre 40mila soldati di trenta Paesi. Per questo, Mosca ha schierato in totale dieci navi nel Mediterraneo e due sottomarini armati di razzi Kalibr. Un deterrente per impedire eventuali interventi americani in Siria. Il Dipartimento di Stato ha già messo in guardia Assad: se usate armi chimiche, noi vi colpiremo. Mica è finita: a sua volta i russi denunciano che saranno i miliziani di al-Qaeda a preparare un attacco chimico in modo da incolpare il regime siriano e fornire il pretesto a Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia per nuovi raid.
In questo aggrovigliato ed inquietante contesto, la morte di Zakharchenko offre motivi di destabilizzazione in Ucraina, altro fronte delicato della strategia cremliniana. In realtà, la sua eliminazione, come lo fu quella di Igor Plotnitski (presidente dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Lugansk), nonché quella di altri capoccia della guerriglia, marcano la fine dei dirigenti storici separatisti, divenuti ingombranti per Mosca, talvolta inaffidabili, arrivati al potere combattendo contro l’esercito ucraino ma poi rimasti legati alle dinamiche delle faide locali. Zakharenko era stato il leader del battaglione Oplet che aveva assaltato il municipio di Donesk nel marzo del 2014. La sua nomina a presidente (con l’81 per cento dei consensi) aveva rafforzato l’ala militare della ribellione. Ora, la sua scomparsa paradossalmente fa comodo sia a Kiev che a Mosca, secondo l’analista Nikola Markovich, “perché è un colpo duro per chi vuole la pace”. Un’ipocrisia. La tregua sancita dai patti di Minsk 2 non è mai stata rispettata. Ora, in tutta la provincia di Donetsk c’è il coprifuoco, la gente non può spostarsi e lunedì sarà giorno di lutto nazionale. In attesa della resa dei conti.