Ci ha lasciato ieri, domenica 2 settembre, dopo mesi di malattia, Giuseppe Rinaldi: detto il “Citrico“. Tale soprannome, che taluni hanno imputato alla “freschezza” del vino Barolo da lui prodotto in anni (i Novanta) in cui la neofilia tecnica suggeriva altri colori e sapori (marmellate di tannini e correzioni enologiche), era invece propriamente riferito al tono mordace della loquela di Beppe, che spesso sfociava in “oratoria”: punteggiata dalla passione per la storia, in specie quella locale, e da una certa scanzonata dimestichezza con le fragilità dell’essere umano.
Era colto Beppe, difficile resistergli: non relativizzava il bicchiere di vino a una pletora di sentori fiabeschi (enanistici, e non è un refuso) o di tecniche utilitaristiche, stimava l’agricoltura un atto sociale ancor prima che locale, attendeva ai suoi incontri in modo schietto e genuino, qualità rare, per quanto confuse con l’esser burberi o schivi. Di certo non era tanto incline alla gentilezza quanto alla polemica. Era però un uomo generoso. Aveva viaggiato in moto e non in business class. Amava profondamente la sua terra, le colline su cui era nato, 70 anni fa: figlio di uno dei sindaci del paese di Barolo e nipote di Giuseppe Rinaldi che aveva fondato la omonima cantina nel 1890.
Conobbi Beppe circa 25 anni fa. Nei primi tempi continuai a piombargli in casa (spesso, dato che la cantina è sotto casa) senza quasi mai avvertirlo, esponendomi al più vario genere di polemiche ed eventi (fra cui l’inseminazione di una mucca poco prima di cena, dato che prima di gestire l’azienda di famiglia Beppe aveva studiato e praticato veterinaria) ed esponendolo a mia volta a ciò che non si aspettava come le riprese di documentari o giri improbabili. Non si discettò quasi mai di vino inteso come mera tecnica enologica, pur assaggiando annate tante annate fatte da lui e da suo padre.
Lo vidi l’ultima volta due anni fa, per quasi due ore ad assaggiare e discorrere in cantina, alla fine di cui mi portò nella sua Schatzkammer dove pretendeva invano di conservare bottiglie che poi puntualmente regalava: lo pregai, e non per gentilezza, di non darmi nulla. Al solito non mi lasciò andar via senza un Barolo maturato per una ventina di anni. Era così Beppe, interpretava il futuro osservando minuziosamente il passato, ma sempre ben assaporando il presente e cogliendo l’attimo a dispetto della moderazione o dell’accumulo: a ciascun giorno la sua gioia.
Mi mancherai Beppe Rinaldi, emblema di Langa e di vino che non mai è dimentico o inconsapevole del suo valore che non è mero business o arrivismo, un vino che non è arzigogolio egotrofico da supercazzola ma è autentica estetica sociale e culturale, un vino che per anni ho portato dispettosamente a cena – peraltro sempre fra i primi a terminare – presso produttori di Langa ben più famosi e danarosi e che di azienda famigliare ormai hanno solo il nome, a differenza di Giuseppe Rinaldi. I cui vini però resteranno (e deliziosi) già da anni seguiti dalle figlie Marta e Carlotta, che presiedono all’azienda assieme alla loro mamma Annalisa.
Vi lascio le parole di suo marito, riportate da un mio post di sette anni fa: “qua (nelle Langhe) si sono piantate vigne anche sui solai. Non doveva essere concesso, anche per lo scontato conseguente discapito della qualità e la nota conoscenza della fragilità delle nostre colline, che ora franano drasticamente col parere del geologi… Da tempo, invece, prevale un unico discrimine: il profitto… mentre alla base della nobiltà e immagine di certi prodotti c’è la scarsità”.
Ciao Beppe.