Lo uccisero poco dopo le 21, mentre a bordo di una A112 bianca, assieme alla moglie Emanuela Setti Carraro, rientrava a casa. Era il 3 settembre 1982, quando Cosa Nostra ammazzò il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa in via Carini a Palermo con 30 colpi di kalashnikov. Assieme a loro i killer colpirono anche l’agente di scorta Domenico Russo, che seguiva la coppia a bordo di una seconda auto. Trentasei anni fa, il prefetto inviato in Sicilia per combattere la mafia dopo anni di lotta al terrorismo conclusi con gli arresti dei vertici delle Brigate Rosse, senza che in quattro mesi gli venissero concessi i poteri che richiedeva a gran voce per lottare contro la “piovra” (poi dati al suo successore Emanuele De Francesco) cadde vittima di un agguato. “Mentre Roma discute, Palermo è espugnata”, disse, citando Sallustio, nei giorni successivi il cardinale Salvatore Pappalardo.
Per l’omicidio Dalla Chiesa sono stati condannati come mandanti i vertici dell’epoca di Cosa Nostra (Totò Riina e Bernardo Provenzano, Michele Greco e Pippo Calò, Nenè Geraci e Bernardo Brusca) e, solo nel 2002, gli autori materiali Nino Madonia, Vincenzo Galatolo, Raffaele Ganci e Giuseppe Lucchese, oltre ai collaboratori di giustizia Calogero Ganci e Francesco Paolo Anzelmo. “Mi mandano a Palermo con gli stessi poteri del prefetto di Forlì”, aveva accusato poche settimane prima in un’intervista a Giorgio Bocca.
“Nella lotta alle organizzazioni terroristiche e mafiose condotta con inflessibile vigore e nella consapevolezza del rischio estremo cui essa lo esponeva, il generale Dalla Chiesa ha dato esempio eccezionale di fedeltà ai valori della democrazia, di difesa della legalità e dello stato di diritto, sino al prezzo della vita”, ricorda il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Il suo impegno generoso e intelligente ha fatto sì che strumenti e metodi innovativi – ha aggiunto – rendessero più incisiva l’azione della Repubblica contro le più pericolose forme di criminalità”. Dal sacrificio suo e delle altre vittime “della barbara violenza mafiosa, che susciteranno sempre dolore e indignazione profondi, le istituzioni e la società traggono tutt’oggi energia e determinazione per riaffermare i valori della convivenza democratica – conclude Mattarella – nell’assoluto ed irrinunciabile rifiuto della cultura della violenza, della prevaricazione e della sopraffazione, tipiche di ogni azione criminale”.
Per il presidente della Camera, Roberto Fico, la morte del generale fu “un gravissimo colpo per lo Stato che non riuscì a proteggere uno dei suoi uomini migliori”. Dalla Chiesa, dice la terza carica dello Stato, era “consapevole che la lotta contro la mafia è assolutamente impari se ad essa non concorrono tutte le forze sane della società e se “di fronte al degrado o alle ingiustizie, lo Stato è colpevolmente latitante e le Istituzioni e la politica non sanno farsi carico dei diritti e delle esigenze dei cittadini”. Così come, aggiunge, “se già nelle famiglie e nelle scuole i giovani non vengono educati ai valori della legalità e dell’onestà” e se “non vi è da parte di tutta la collettività una risoluta reazione etica e culturale volta a sbarrare il passo ai metodi dell’intimidazione e alla logica della corruzione“.
Come uno dei “simboli dell’Italia migliore”, lo descrive invece la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. “La sua determinazione, le sue straordinarie capacità investigative, la sua rigorosa onestà, rappresentano un esempio da seguire per quanti con coraggio proseguono la lotta contro l’arroganza, la prepotenza e la violenza mafiosa – prosegue Casellati – Il bisogno di legalità e la speranza degli italiani onesti crescono e si fortificano anche tenendo vivo il ricordo di uomini come il generale Dalla Chiesa, che, dalla lotta partigiana a quella contro terrorismo e mafia, fu sempre con generosità e competenza al servizio del suo Paese”. Mentre per la ministra Elisabetta Trenta “ancora oggi” il generale dei carabinieri “rappresenta un simbolo di fedeltà ai valori della democrazia e della legalità. Lo ricordiamo come esempio di una società civile e onesta”.
Sull’uccisione del generale, a distanza di decenni, si aggiungono ancora dettagli e persistono “zone d’ombra”. Così le chiama, nella sentenza con la quale sono stati condannati gli esecutori materiali, la Corte d’Appello di Palermo: “Si può senz’altro convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso – scrissero i giudici nel 2002 – sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale”.