Bene bene. Anzi male. Malissimo. Anche Venezia 75 ha i suoi “scult”. All’abbondante giro di boa di un Concorso che non aveva di certo deluso, ecco arrivare una sonora scarica di titoli da bocciatura senza appello. Opera senza autore dell’osannato Florian Henckel von Donnersmarck (Le vite degli altri) con i suoi 188 minuti di tribolante banalità di scrittura e superficialità estetica vince a mani basse il premio “prime tv di Rai1 dopo i pacchi”. Tre i momenti “esplorati” della storia tedesca del Novecento (il nazismo, la ricostruzione della Germania Est negli anni cinquanta, la fuga all’Ovest negli anni Sessanta) per raccontare le vicende del pittore ancora vivente Gerhard Richter: bimbo quando le SS internano e sopprimono sua zia artista pazzerella; adolescente iscritto alla scuola d’arte comunista in cui viene soppresso l’ “io” a favore della pittura per il popolo; ragazzotto che si innamora della figlia di un ex funzionario nazista (quello che ha mandato a morte la sorella) e da lui viene trattato come uno sottoposto fantozziano; fino al ritrovamento della propria voce poetica all’accademia di Dusseldorf. Ogni sequenza, e quando scriviamo ogni vuole dire ogni, è costruita per raggiungere un climax. Un espediente di scrittura così elementare, banale ed agghiacciante che impone un devastante e risaputo ritmo televisivo. Così strutturato Opera senza autore non permette nemmeno un rigenerante pisolino a metà film perché l’effetto continuamente sussultorio non è mai quello dell’affresco epico ampio e graduale, ma di tanti piccoli filmetti da ufficio/aula/ambulatorio/ristorante di due, tre, quattro minuti, che iniziano nello stesso spazio ristretto, proseguono con due battute chiave e finiscono con un colpo di scena. Se poi aggiungiamo che non esiste un barlume di elaborazione a livello estetico (forse il regista tedesco se l’è cercata andando a raccontare il tema dell’artista che non trova la sua voce) e una direzione d’attori imbarazzante nel suo sfuggente pressappochismo (Tom Schilling, il Kurt protagonista, che attraversa tre quarti di film ha pure un’espressività da salame appeso al soffitto), rimane il mistero su come il terzo film di von Donnersmarck sia finito addirittura a concorrere per il Leone d’Oro.
Dubbio che subito viene cancellato dall’apparizione di una pericolosissima meteora argentina intitolata Acusada. Saremmo fortunati noi in Italia, ma una qualsiasi ricostruzione di un delitto a Quarto Grado di Gianluigi Nuzzi insegnerebbe qualcosa, qualsiasi cosa, a livello tecnico e di scrittura al signor Gonzalo Tobal, che qui vince il premio “miracolato a Venezia”. Rifacendosi oltretutto e senza dirlo nella trama al caso Amanda Knox (una cosina da nulla, per carità), nel racconto della bella fanciullina presunta colpevole ma che nessuno riesce a incriminare, Tobal batte il record di luci accese ovunque sul suo set. Un appartamento in interno giorno per lui è identico ad uno in interno notte. L’aula di un tribunale viene ripresa con la calza berlusconiana sull’obiettivo come un qualsiasi esterno di campagna. Oppure l’ufficio dell’avvocato difensore, un principe del foro catatonico quanto inconcludente, che sembra l’Olimpico di Roma quando si gioca la partita serale. Nulla di che, si dirà. Basta mettersi un paio di occhiali da sole e l’effetto luce si attenua. Peccato che Acusada sia però anche la fiera dei cliché a livello supremo che nemmeno nei film drammatici italiani girati nei tinelli romani. Ci basti la mamma della vittima che piange realmente e in continuazione per tutto il tempo (perfino quando attraversa la strada con le borse della spesa) senza mai dire battute, se non un paio, sempre piangendo. Vuoi mai che il concetto ci sfugga. La ciliegina sulla torta è però la metafora animale. Un puma che nulla c’entra con il presunto omicidio ma di cui ne parlano diverse persone estranee per tutto il film e che alla fine compare alla protagonista che lo guarda dalla finestra come se avesse visto ET o Rocco Siffredi nudo (scegliete voi). Una soluzione di senso che sembra tanto dire ‘sì, lo so che la storiella che ho messo in scena è una chiavica, ma quel puma sul tetto all’improvviso eh, che trovata?”.
Ultimo scult per un eccesso bulimico di stile spetta invece a Laszlo Nemes. Il regista ungherese autore di un capolavoro come Il figlio di Saul ottiene il Concorso veneziano dopo, dicono nei corridoi del Lido, aver rimontato un paio di volte il suo film fiume (142 minuti) ed essere stato rifiutato due volte da Cannes. Praticamente Nemes gira lo stesso identico film che aveva girato in precedenza. Semisoggettiva in medias res a cui basta sostituire il fondale dei campi di concentramento de Il Figlio di Saul con il viavai di una cappelleria (dove la protagonista Irisz vuole farsi assumere a tutti i costi perché quel luogo era la sua casa di famiglia), di alcune sordide strade di Budapest, e perfino di una trincea della prima guerra mondiale. Capirai. I Dardenne di questa reiterazione di stile ci hanno campato. Però una scelta formale così radicale applicata a quella che, anche qui, a scelta di un qualunque critico, è stata definita “un’allegoria”, “un racconto metafisico”, “una rappresentazione metaforica”, ecc… provoca semplicemente un effetto di estenuante rimbambimento dello spettatore. Tramonto di Nemes è agonia pura, proprio perché la forma non riesce a farsi contenuto e la fatica infinita con cui si cerca di digerire questa impalpabilità di vicende, personaggi, finanche del senso metaforico e/o simbolico dei riferimenti storici (peccato di superbia presente dalle parti di Suspiria di Guadagnino) è un vera gara di resistenza psico-fisica. Da rivedere. O forse no.