Il sindaco di Gallipoli mi ha querelato perché ritiene che la sua città sia stata diffamata da una Istantanea che la definiva “martire” della cafonaggine. Martire, cioè vittima della cafoneria altrui, del fuggi fuggi di furbi di ogni risma verso abusi di ogni ordine e grado che nel tempo hanno reso l’estate una corrida, e quel luogo d’incanto una piattaforma esplosiva di odori, umori, rumori dentro cordoni di cemento espansivo.

Era un giudizio severo, sul quale naturalmente si poteva essere in disaccordo, ma fondato sulla verità non sulla manipolazione. Era e resta un’opinione critica, del tutto legittima e, a leggere i commenti e le adesioni che seguirono, anche piuttosto apprezzata.

Ma gli scritti quando non sono adulatori risultano antipatici. E invece di cercare nella realtà dei fatti la ragione della critica, si trasforma in fantasia la realtà, il giornalista in nemico, l’articolo in una pugnalata alle spalle.

E così la querela, strumento posto per difendere la verità dagli abusi, diviene essa stessa un abuso, una forma di intimidazione, una manifestazione pubblica di un potere irresponsabile. Chi è che valuta se la querela è temeraria o fondata? E chi pagherà se l’atto giudiziario dovesse rivelarsi non solo inefficace, ma palesemente abnorme, fuori dai confini della legge?

Si parla tanto di fake news, tantissimo di giornalisti “prezzolati” , “venduti”, “reggicoda” e via dicendo, tanto ciascuno ha in tasca l’insulto appropriato.

Poco, troppo poco, di questa pratica che pretende le opinioni controllate, devitalizzate, gustose ed espettorabili come chewing gum.

I fatti sono fatti.

Arrivederci in tribunale.

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