Oggi, 9 settembre 2018, ricorrono i vent’anni esatti dalla morte di Lucio Battisti, il più importante innovatore della popular music italiana. Musicista vero, Battisti è la canzone che sa anche essere musica e basta. È colui che più di altri e prima di tutti ha portato la forma-canzone in territori inesplorati.

Dunque Battisti non era un semplice scrittore di canzoni. Non scriveva testi, come sappiamo, per cui non si può ascrivere nel novero del genere ‘canzone d’autore’, almeno nell’accezione storica, “primigenia” dell’espressione. Ma la canzone d’autore non è che un genere della popular music, e che rientra nel più vasto insieme di ‘canzone d’arte’. Ecco, per ciò che riguarda la canzone d’arte, Battisti è stato il migliore. Per distacco.

Se poi è vero che gli uomini si riconoscono dai gesti che assomigliano alle proprie parole, Battisti oggi manca seriamente: faceva parlare solo le sue canzoni, refrattario al divismo e dunque autentico, mai appiattito nella ricerca dei gusti dei suoi fans. Da un certo punto in poi si è proprio del tutto eclissato. È rimasta celebre questa sua affermazione: «Un artista non può camminare dietro il suo pubblico, un artista deve camminare davanti». Ha scritto assieme a Mogol almeno una ventina di hit (non servono i titoli), ciascuna delle quali avrebbe rappresentato il culmine di carriera per un singolo artista.

Purtroppo c’è un pregiudizio ancora vivo e vegeto: catalogare Battisti come autore commerciale e pop, disimpegnato (come fosse un’onta), autore di facili successi discografici in serie. Niente di più falso. Canzone e commercio ideologico, siamo sempre lì. La sua storia parla da sola: Battisti non è stato mai fermo, non ha mai ripetuto l’identico come molti altri artisti. E poteva farlo.

Invece, dopo Emozioni del 1970 ecco Amore e non amore, album sperimentale che la Ricordi pubblicò non senza riserve; poi nel 1974 arriva Anima latina, disco che frantuma la forma canzone tradizionale, fino allo strappo più estremo ed economicamente sconveniente: la fine del sodalizio con Mogol, dopo l’album Una giornata uggiosa del 1980. «Scrivi il tuo nome/ su qualcosa che vale,/ mostra a te stesso/ che non sei un vegetale;/ e per provare/ che si può cambiare/ sposta il confine/ di ciò che è normale» (Scrivi il tuo nome, 1982): con queste parole Battisti inizia l’era post Mogol. Chi lo avrebbe fatto dei suoi detrattori? Da lì, forse per avvicinare la natura denotativa del testo e quella connotativa della musica, verso la strada di una grammatica totale, “naturale” della canzone, dal 1986 e per cinque dischi si è avvalso dei testi dell’enigmatico Pasquale Panella, per i cosiddetti “album bianchi”. Una ricerca continua, invece di una strada comoda. Gli artisti veri fanno così.

Chiudo con una riflessione, per far capire quanto manchi oggi una personalità come Battisti. Uno dei suoi maggiori studiosi è Gianfranco Salvatore; ricordo benissimo che rimasi colpito quando lessi dalla sua biografia dell’artista (L’arcobaleno, Giunti, 2000) il racconto della registrazione di Emozioni. C’era in studio un’atmosfera fatale. Battisti la cantò con un filo di voce, uscì con gli occhi lucidi e le persone presenti erano tutte stremate. Parliamo di Mogol, Mussida, gente che già oggi e ancora di più in futuro si studiano e studieranno a scuola. Mogol e Battisti non pensarono più di voler scrivere una canzone di quel tipo; e in effetti non lo fecero. I presenti erano certi di trovarsi di fronte a qualcosa di irripetibile e unico. Per questo, la cosa acquisiva ancora più valore; avevano anche la competenza per capirlo.

Io vi scrivo nel 2018. L’altra sera Sky ha messo in onda la registrazione della prima puntata di X Factor di quest’anno. Per la metà degli artisti esibitisi, i giudici hanno avuto lo stesso atteggiamento che Mussida e Mogol ebbero per Emozioni. Lascio a voi ogni tipo di considerazione.

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