La Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia è giunta al termine e arriva il momento di tirare le somme di questa 75° edizione. È stata una rassegna costellata di film di altissimo livello, ma soprattutto ricca di opere completamente differenti tra di loro, per generi, tematiche, estrazione culturale e artistica. Nonostante le polemiche sull’adeguata presenza delle quote rosa al timone di regia, è impossibile non sottolineare quanto le donne siano state protagoniste di questa Mostra, con personaggi femminili forti, variegati, capaci di imprimersi nelle memorie.
Altra tendenza sicuramente interessante è il ritorno a un cinema in grado di lavorare sul linguaggio e che cerca di rielaborare i generi, contaminandoli, per raccontare la contemporaneità. In questo senso è emblematica la presenza così massiccia nel palmares di opere che possono richiamare un immaginario western. Al netto dei premi – che come ogni anno generano grandi discussioni tra gli spettatori e gli addetti ai lavori del Lido – mi piacerebbe comunque fare un passo indietro e porre l’attenzione su tre film (e in particolare su tre regie) che in modi completamente differenti hanno segnato un punto di rottura, non soltanto di questo concorso, ma più probabilmente di questa annata cinematografica.
Il primo di è senza dubbio Roma. Il film di Alfonso Cuaròn è uno dei Leoni d’Oro più straordinari che si siano mai visti e dal primissimo istante è stata nettissima la sensazione di aver assistito a qualcosa che andasse oltre il semplice cinema. Il regista messicano compie un autentico miracolo nel riuscire a trasformare qualcosa di estremamente piccolo, intimo e personale in qualcosa dall’inestimabile valore universale. Partendo infatti dal suo Paese e dalla sua infanzia, attraverso gli occhi e le movenze della sua tata, traccia un disegno straordinario di una nazione, di una donna, di una famiglia e di un sentire umano. Cuaròn accarezza il suo film con lenti e morbidissimi movimenti di pan in cui le azioni, i personaggi e gli spazi sembrano rispondere a un’invisibile legge perfetta che soltanto il cinema conosce e domina. Veste il suo film di un bianco e nero raffinatissimo dai contrasti bassi e coordina piani sequenza così complessi che sembrano impossibili anche solo da immaginare. Roma è una poesia visiva che si muove in orizzontale, come si trattasse di un abbraccio continuo alla vita che scorre e a tutto ciò che ci costringe ad affrontare. Gli unici movimenti di camera verticali arrivano nella prima e nell’ultima inquadratura del film, come se simbolicamente, dopo tanto vivere terreno si potessero congiungere terra e cielo. Un’opera accompagnata soltanto dal silenzio e dai suoni della vita, completamente priva di colonna sonora. E se durante la visione si rimane spesso in apnea, al termine, non si può che essere estasiati, con gli occhi lucidi pieni di meraviglia.
Cambiando completamente stile e approccio troviamo un altro film dirompente per la sua idea di messa in scena. Dopo l’esordio (Il Figlio di Saul) che ha stupito il mondo del cinema, Laszlo Nemes prosegue con Sunset il suo discorso stilistico, ampliandolo e alzando l’asticella delle ambizioni davvero a livelli altissimi. Ancora una volta gli elementi cardine di questa visione registica sono il pedinamento della propria protagonista, l’evanescenza di un mondo mai perfettamente a fuoco e la potenza disarmante del fuori campo. Questa volta però la macchina da presa si fa meno irrequieta rispetto al passato e sembra danzare tra coreografie articolatissime, i contorni talvolta assumono forme definite e di tanto in tanto si galleggia anche su diversi punti di vista. Tutti questi accorgimenti, uniti alla grana pastosa di una pellicola 35 mm, a una fotografia dai tratti polverosi, che passa da momenti di buia intimità ad altri in cui le alte luci esplodono per irradiare lo schermo, crea un effetto di mistero e di fascino irresistibile, perfettamente aderente e funzionale a una narrazione che rimarrà inafferrabile fino all’ultimo fotogramma. Un cinema che sembra uscito da un altro tempo ed un altro spazio.
Nonostante l’Italia sia uscita con le ossa rotte dai verdetti della giuria di questa edizione, anche un film italiano segna sicuramente un punto di svolta sul piano stilistico rispetto a tutto ciò che si è soliti vedere: Suspiria di Luca Guadagnino. Al di là del gusto e dei giudizi personali, ciò che più di ogni altra cosa sorprende del regista palermitano è come ormai sia un maestro assoluto nella costruzione dell’atmosfera, di qualsiasi genere essa sia. Tutti i suoi film hanno il potere di immergere in un mondo in cui si respira e si vive un’atmosfera, sempre diversa ma perfettamente pregnante allo spirito del racconto. Suspiria forse è la sublimazione di questo percorso, perché confrontarsi con uno dei capisaldi della cinematografia mondiale di genere, senza rimanerne schiacciato, ma anzi avendo la forza e il coraggio di creare qualcosa di nuovo e totalmente personale, è un atto di maturità non indifferente.
Al netto di tutte la piccole problematiche narrative che alcuni potrebbero riscontrare, ma che rendono il film intrigante nella sua irrisolutezza, dal punto di vista registico e visivo, Guadagnino dimostra un talento con pochi eguali. Basterebbero davvero due o tre scene coreografate per far capire la portata cinematografica questo lavoro. Ma sarebbe riduttivo fermarsi a questo, perchéla perfetta gestione dei tempi che si comprimono e si dilatano sempre in relazione alla tensione, la ricerca articolata di infiniti punti macchina, la cura nella scelta della palette cromatica e nell’uso delle luci, la complessità di un montaggio a tratti folgorante, la superlativa resa del sound design, l’equilibrio degli effetti digitali ne fanno una delle opere più potenti e sorprendenti dell’anno. Suspiria è uno di quei film che non termina con la semplice visione, ma che cresce dentro nel tempo richiedendo altre visioni.
Di altri ottimi film in concorso come La Favorita o First Man sentiremo ancora parlare a lungo durante la stagione dei premi, ma l’incontro di questi tre universi cinematografici tanto diversi quanto potenti contribuisce a rendere questa 75° edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia preziosissima.