Secondo Chiara Saraceno non corrisponde al vero che la liberalizzazione di Monti stia "distruggendo le famiglie": "Ci sono gestioni familiari che si reggono proprio sulla divisione di orari e compiti dei genitori. Ma occorrono più garanzie". Insufficiente esonerare chi ha figli minori di 3 anni e chi assiste portatori di handicap
“Le aperture domenicali dei centri commerciali? Nulla in contrario, a patto che si faccia una serie riflessione e si intervenga sulla contrattazione, dando più potere ai lavoratori”. Così la sociologa Chiara Saraceno commenta l’annuncio del vicepremier e ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio sull’approvazione, entro l’anno, di una legge che imporrebbe limitazioni nei fine settimana e nei festivi, con un meccanismo di turnazione che lascerebbe aperti solo un quarto degli esercizi. Parole che hanno suscitato reazioni anche contrastanti. Secondo Di Maio la liberalizzazione introdotta dal governo Monti “sta distruggendo le famiglie italiane”, mentre “bisogna ricominciare a disciplinare orari di apertura e chiusura”. Una posizione accolta con favore dalla Cgil, secondo cui la totale liberalizzazione ha determinato condizioni di lavoro molto difficili.
LA LIBERALIZZAZIONE DI MONTI – Lo spartiacque è stata la modifica del decreto Salva Italia del governo Monti. Dal 2012 è cambiata la gestione dell’orario di lavoro degli esercizi commerciali con conseguenze sulla vita di molti lavoratori che si sono ritrovati davanti a una rivoluzione: nessun limite per gli orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali e neppure l’obbligo di chiusura domenicale e festiva o della mezza giornata infrasettimanale. L’obiettivo (non raggiunto) del governo Monti era quello di cercare di rilanciare consumi e occupazione, puntando sulla massima disponibilità, così come avveniva altrove. In realtà sono 16 (su 28) gli Stati dell’Unione europea dove non ci sono limitazioni di orario o apertura domenicale. Ci siamo spinti troppo oltre? Occorre fare qualche passo indietro? “Credo che la liberalizzazione non sia un male tout court – spiega a ilfattoquotidiano.it la sociologa Saraceno – ma questo a patto che si rispettino i diritti dei lavoratori in primis, garantendo condizioni e trattamenti adeguati”.
LA CONTRATTAZIONE – Bisogna partire, dunque, dalla contrattazione. Un esempio è quello delle categorie di lavoratori che possono legittimamente rifiutarsi di lavorare nelle domeniche o nei festivi. Tra questi ci sono anche i genitori di minori al di sotto dei 3 anni o i dipendenti che convivono e assistono portatori di handicap e persone non autosufficienti titolari di assegno di accompagnamento. “Ebbene credo che queste regole non siano sufficienti – spiega la sociologa – perché non basta tutelare solo chi ha figli molto piccoli e credo che si debba fare un’attenta riflessione anche sul lavoro di cura che molti dipendenti svolgono”. E poi c’è la questione della maggiorazione salariale: “Bisogna incentivare chi è disposto a lavorare in orari scomodi, queste persone devono avere più garanzie. Non mi puoi licenziare se non posso lavorare in alcuni giorni o in determinati orari, tanto per fare un esempio”.
LE FAMIGLIE – Ma è vero che la liberalizzazione sta distruggendo le famiglie italiane? “Credo che i problemi delle famiglie italiane siano altri – commenta Chiara Saraceno – basti pensare alla mancanza di lavoro, ai salari bassi e alla disuguaglianza tra uomini e donne”. Difficile fare un discorso generale “quando ci sono gestioni familiari che si reggono proprio sulla divisione di turni e compiti dei genitori. In alcuni casi il lavoro domenicale viene incontro alle esigenze di queste famiglie aiutando a conciliarle, sia se si tratta di dipendenti dei centri commerciali, sia se si tratta di consumatori. In questa società sono in tanti a non avere il classico orario d’ufficio dalle 8 alle 17. Ribadisco, l’importante è che il lavoratore abbia il potere di decidere”. Secondo la sociologa, infatti, “resta un problema di compatibilità tra il lavoro e gli impegni familiari”. È una questione che riguarda diverse categorie. “Tanto è vero – aggiunge la sociologa – che mi meraviglia constatare quanto clamore susciti il tema delle aperture dei centri commerciali, mentre nessuno si preoccupa dei lavoratori nel settore dei trasporti, piuttosto che di quelli della sanità. Gran parte della nostra vita è basata sul lavoro di queste persone, che pare non faccia scandalo. Forse questo è dovuto al fatto che il discorso dei centri commerciali è legato a doppio filo a quello del consumismo”.
I RISCHI PER I CONSUMI – A proposito il Codacons ha lanciato l’allarme per i dodici milioni di italiani che “fanno acquisti la domenica” e per i quali “i giorni festivi rappresentano l’unica occasione per dedicarsi allo shopping e alle compere”. Di Maio ha spiegato che quella del governo non è una chiusura totale: ci sarà un meccanismo di turnazione per cui resterà aperto il 25% dei negozi, uno su quattro. A decidere chi sarà aperto e chi chiuso saranno, come in passato, sindaco e commercianti. Secondo la sociologa è evidente che l’apertura domenicale sia una comodità. “Tuttavia – spiega – io non spendo di più se ho la possibilità di acquistare di domenica o di notte, ma lo faccio se aumenta il mio budget”. Secondo il presidente dell’associazione dei consumatori Carlo Rienzi bloccare le aperture domenicali “equivale a dirottare gli acquisti verso l’e-commerce che, a differenza dei negozi tradizionali, non subisce alcun vincolo o limitazione” e “determinerà la morte di migliaia di piccoli esercizi”. Per la sociologa Saraceno questi rischi esistono già oggi, perché l’e-commerce sta già facendo chiudere diverse catene e perché “è da tempo che il piccolo commerciante è costretto a trovare una sua specificità se non vuole chiudere”. “La competizione non riguarda solo la domenica”, spiega Chiara Saraceno. Come uscirne? Secondo la sociologa le aperture andrebbero regolate non attraverso una legge, ma a livello locale. “Gli enti potrebbero stabilire quanti negozi di quella determinata tipologia debbano restare aperti in modo da averne uno per quartiere – conclude – magari la gente non andrebbe al centro commerciale se sapesse di poter trovare alcuni beni di prima necessità in un raggio di distanza ragionevole. Un po’ come avviene per le farmacie”.