Bisognerà attendere le motivazioni per capire perché la III sezione abbia adottato un provvedimento opposto rispetto a quello emesso nel luglio del 2017 dai alla fine del processo di primo grado. Ma basta mettere in fila alcune recenti decisioni della Suprema corte per capire che la sentenza con la quale si riconosce la presenza della mafia a Roma non è un ribaltone
La chiave è la forza d’intimidazione. Una caratteristica che non è solo delle mafie tradizionali ma anche di quelle che Giuseppe Pignatone ha definito in passato come “piccole mafie“. È per questo motivo – con tutta probabilità – che la corte d’Assise d’appello di Roma ha riconosciuto Massimo Carminati, Salvatore Buzzi e altre 16 persone colpevoli di associazione a delinquere di stampo mafioso. Mafia capitale esiste ed è quella ricostruita dalle indagini di Pignatone e dei suoi sostituti. Certo, bisognerà attendere le motivazioni della sentenza per capire perché i giudici della III sezione abbiano adottato un provvedimento opposto rispetto a quello emesso nel luglio del 2017 dai colleghi del processo di primo grado. Ma basta mettere in fila alcune recenti decisioni della Cassazione per capire che la sentenza con la quale si riconosce la presenza della mafia a Roma non è un ribaltone. E nemmeno una “sorpresa stravagante“, per utilizzare le parole di Giosuè Naso, l’avvocato di Carminati. Al contrario segue il solco tracciato da una serie di sentenze degli stessi ermellini. Lo stesso solco seguito dalla procura. E che oggi diventa un precedente importante nella analisi giuridica del fenomeno mafioso.
Il punto fondamentale è – come detto – la forza intimidatrice, cioè uno dei tre requisiti fondamentali che differenzia l’associazione a delinquere semplice da quella di stampo mafioso. Secondo i giudici del processo di primo grado, il sistema di potere che faceva capo a Buzzi e Carminati corrispondeva a “un concetto di mafiosità che non è quello recepito dal legislatore nella attuale formulazione della fattispecie di cui all’art. 416 bis per la quale, come già detto, non è sufficiente il ricorso sistematico alla corruzione ed è invece necessaria l’adozione del metodo mafioso, inteso come esercizio della forza della intimidazione”. Principio che era stato già smentito dai supremi giudici il 10 aprile del 2015, quando avevano bocciato i ricorsi di una serie di indagati arrestati nell’operazione sul Mondo di mezzo. Secondo la Cassazione “la forza intimidatrice” di un’organizzazione mafiosa può derivare, oltre che dalla violenza, anche dalle “contiguità politiche ed elettorali” e dal sistematico ricorso al “metodo corruttivo” per determinare un “sostanziale annullamento della concorrenza o di nuove iniziative da parte di chi non aderisca o non sia contiguo al sodalizio”. Come dire: per intimidire qualcuno non bisogna per forza presentarsi come esponente di un determinato clan affiliato alla camorra, alla ‘ndrangheta o a Cosa nostra. Al contrario basta che la persona intimidita sappia di avere a che fare con un’organizzazione ramificata e capace di esplicitare la propria forza – e dunque l’eventuale vendetta – grazie ai legami con ambienti diversi: siano essi quelli della pubblica amministrazione o della politica. Un principio che in pratica “disegna” l’esistenza di nuove mafie.
“Il Mondo di mezzo non dominava un territorio ma un settore di affari, economico, e soprattutto una serie di rapporti con un pezzo dell’amministrazione comunale di Roma – ha proseguito Pignatone – secondo noi otteneva il controllo con il metodo mafioso in quanto aveva la disponibilità della violenza. Tutti lo sapevano, Carminati aveva alle spalle un pedigree noto a Roma. C’erano secondo noi le condizioni per il riconoscimento del carattere mafioso”, spiegava ex capo degli uffici inquirenti di Palermo e Reggio Calabria annunciando l’appello della sentenza di primo grado. “L’articolo 416 bis del codice penale non punisce solo le mafie tradizionali – continuava il magistrato – le piccole mafie, piaccia o non piaccia, hanno piena cittadinanza per essere punite, anche le piccole mafie sono tali se usano il metodo mafioso”. E infatti è proprio seguendo questo principio che negli ultimi mesi gli ermellini hanno emesso una serie di sentenze molto simili tra loro. Nel giugno scorso, per esempio, la Cassazione ha confermato sedici custodie cautelari in carcere per altrettanti esponenti del clan Spada di Ostia, arrestati a gennaio. Da mesi la Suprema corte aveva chiesto ai giudici di merito di contestare al clan Spada l’aggravante mafioso.
Il 10 novembre, invece, la II sezione aveva accolto il ricorso del pg di Venezia che chiedeva di condannare per 416 bis un clan di moldavi dedito al racket ritenuto colpevole solo di associazione semplice. In quel caso i giudici facevano notare che le nuove mafie hanno cambiato la necessità e le modalità di esteriorizzazione del metodo mafioso“, si muovono sottotraccia, e sono cambiate anche le “condizioni di assoggettamento e di omertà” tanto che questa nuova criminalità è “oggetto di ampia riflessione giurisprudenziale con esiti” che prescindono dal requisito della “indispensabilità del radicamento territoriale”.
Il 26 ottobre del 2017 era arrivata un’altra sentenza sempre sulla strada dell’annullamento di condanne che escludono l’accusa di mafia per le nuove forme di criminalità ritenute “a bassa potenzialità intimidatrice”. La VI sezione, infatti, a ordinare un nuovo processo per il clan Fasciani di Ostia, per i quali la corte d’Appello aveva fatto cadere l’associazione mafiosa. Per i magistrati erano state provate le “capacità criminali”, ma non il metodo mafioso del clan. “Ostia può servire come microcosmo di osservazione per dire che non esiste più una mafia ma ne esistono tante. Lo ha capito il legislatore, lo ha capito la Cassazione e piano piano lo capiremo tutti”, commentava in quel caso Pignatone. Che su Mafia capitale, aggiungeva: “Vedremo fra due o tre anni chi ha ragione”. Ne è bastato uno.