Quarant'anni dopo arriva la parola fine sull'omicidio dell'attivista di Democrazia Proletaria. L’archiviazione per prescrizione è arrivata pure per i tre sottufficiali (rispondevano di concorso in falso) che la notte del delitto fecero perquisizioni nella casa di Impastato a Cinisi: Carmelo Canale, Francesco Abramo e Francesco Di Bono
Le indagini sull’omicidio di Peppino Impastato furono depistate. E non dagli uomini di don Tano Badalementi, il boss di Cinisi che Peppino denunciava dai microfoni di Radio Aut. L’inchiesta sull’omicidio dell’attivista siciliano fu deviata da quegli stessi uomini dei carabinieri che invece dovevan trovare i colpevoli. Quarant’anni e quattro mesi dopo arriva la parola fine sull’uccisione di quello che doveva essere fatto passare solo per un pazzo. A scriverla è il giudice per le indagini preliminari di Palermo, Walter Turturici, arciviando l’inchiesta sul generale del carabinieri, Antonio Subranni, indagato per favoreggiamento. “Un contesto di gravi omissioni ed evidenti anomalie investigative“, scrive il giudice descrivendo le indagini svolte nel 1978.
L’archiviazione per prescrizione – come racconta Salvo Palazzolo su Repubblica – è arrivata pure per i tre sottufficiali (rispondevano di concorso in falso) che la notte del delitto fecero perquisizioni nella casa di Impastato a Cinisi: Carmelo Canale, Francesco Abramo e Francesco Di Bono. La pista mafiosa non fu presa in considerazione dai carabinieri, che tentarono, piuttosto, di accreditare l’esponente di Democrazia Proletaria come una persona instabile sul piano psichico. I pm Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi e Francesco Del Bene avevano individuato in Subranni il responsabile principale del depistaggio. Il motivo? “Aprioristicamente, incomprensibilmente, ingiustificatamente e frettolosamente escluse la pista mafiosa”, scrive il gip, che parla di “vistose, se non macroscopiche anomalie delle attività investigative”. Ormai in pensione, Subranni è stato recentemente condannato a 12 anni nel processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra: è tra gli investigatori che avrebbe aperto un dialogo con i boss negli anni delle strage mafiose.
E un dialogo sarebbe stato aperto quarant’anni fa anche nella Cinisi di Impastato, dove nel 1978 Badalamenti era da poco diventato un confidente dei carabinieri. A gestire la sua collaborazione coperata era il maresciallo Antonino Lombardo che il 4 marzo del 1995 si sparò un colpo di pistola nell’atrio della caserma Bonsignore di Palermo. Nella stessa notte sparirì il suo archivio. La stessa fine fatta dai documenti sequestrati in casa Impastato.
L’archvizione per prescrizione lascia inevasi una serie di interrogativi. A cominciare dal foglio su cui i carabinieri avevano scritto subito dopo l’omicidio: “Elenco del materiale sequestrato informalmente a casa di Impastato Giuseppe”. A casa di Peppino ci fu un sequestro informale dunque, cioè un sequestro non autorizzato da nessuno. Quello foglio è un dettaglio importante perché si affianca a un altro elenco, questa volta formale, in cui i carabinieri avevano appuntato di avere portato via da casa Impastato solo sei fogli tra lettere e volantini, con scritti d’ispirazione politica e propositi di suicidio. “Voglio abbandonare la politica e la vita“, è il testo di un appunto che per gli inquirenti doveva essere la prova del suicidio. Nei documenti sequestrati, però, c’era anche altro. Lo ha raccontato Giovanni Impastato, fratello di Peppino: “Ricordo che mio fratello poco prima di morire si stava interessando attivamente alla strage della casermetta di Alcamo Marina, che nel 1976 costò la vita a due giovani carabinieri. In seguito a quel fatto, gli uomini dell’Arma vennero a perquisire casa nostra dato che mio fratello era considerato un estremista. Da lì Peppino iniziò a raccogliere informazioni sulla questione, notizie che accumulava in una specie di dossier: una cartelletta che fu sequestrata e mai più restituita”. Oggi, dopo l’archiviazione, Giovanni Impastato chiede che sia restituito l’archivio sottratto dai militari in quel sequestro informale. “Nel nostro Codice – dice – non esiste questo genere di perquisizione”. E aggiunge: “Scompare un’altra verità. Subranni ha avuto responsabilità nella Trattativa e nella strage della casermetta di Alcamo del ’76”.