Le donne sono state ascoltate, poi le eurodeputate hanno firmato una lettera di appello - inviata al presidente del Parlamento europeo Tajani, al premier Conte e alla sindaca Raggi - per scongiurare la fine dello storico centro antiviolenza di via delle Lungara a seguito della revoca della concessione del Comune di Roma per morosità. A dicembre la Commissione per i diritti della donna sarà in missione nella Capital
Una lettera ufficiale e l’impegno delle eurodeputate del centrosinistra che verranno in missione a dicembre, a non permettere che La Casa internazionale delle Donne di Roma venga chiusa. La battaglia dello spazio autogestito di via della Lungara e dei centri antiviolenza italiani è arrivata fino a Bruxelles. Il 3 e 4 settembre scorsi una delegazione delle realtà associative a rischio è stata accolta nel Parlamento europeo presso la commissione “Femm” per i diritti della donna e l’uguaglianza di genere. Scopo: portare il tema del pericolo chiusura delle realtà femministe e degli spazi autogestiti dalle donne all’attenzione delle istituzioni europee.
Dopo mesi e mesi di battaglie, annunci e controproposte a tavolo tecnico per evitare che il centro chiudesse i battenti – poiché moroso di circa 900mila euro – con la mobilitazione di cantanti, attrici e donne di spettacolo , il 3 agosto, la concessione dello stabile di Trastevere è stata definitivamente revocata dal Comune di Roma. Un tema, quello degli spazi occupati e autogestiti e dell’emergenza abitativa, con cui il Campidoglio sta facendo i conti anche a seguito della circolare diramata dal Viminale e la conseguente stretta sugli stanziamenti abusivi.
La Casa delle Donna in commissione Femm – Così le attiviste hanno rivolto lo sguardo verso Bruxelles per chiedere soccorso al Parlamento europeo. La delegazione – formata da Lucha y Siesta, centro antiviolenza Donna L.I.S.A., Centro donne Dalia, Assolei Onlus, Casa della donna di Pisa e Viareggio e Pronto Donna di Arezzo – è riuscita ad incassare il sostegno di oltre 40 eurodeputate che le hanno ascoltate in commissione Femm. Le parlamentari europee non solo hanno firmato la lettera-appello ma hanno calendarizzato una missione a Roma, a dicembre, per affrontare la questione. Inoltre, “ci sarà un follow up, con le coordinatrici della commissione per arrivare ad una soluzione a livello europeo per tutelare con provvedimenti ad hoc gli spazi delle donne”, annunciano da via della Lungara. “Il nostro caso servirà a sollevare il tema a livello europeo. Un successo”, commenta al Fattoquotidiano.it, Maria Brighi della casa della Casa delle Donne.
La lettera – A farsi portatrice del messaggio a Bruxelles è stata l’europarlamentare Eleonora Forenza, del gruppo Gue-Ngl (Sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica), che ha direttamente investito del problema Antonio Tajani, presidente del Parlamento europeo, e il premier Giuseppe Conte, scrivendo loro ufficialmente per chiedere di schierarsi in difesa e in aiuto dei centri. La “lettera di supporto agli spazi di libertà delle donne”, come recita l’oggetto della missiva, è indirizzata anche alla sindaca di Roma Virginia Raggi che – assicurano le donne – “l’ha già ricevuta” ma ancora non ha riposto. “Un paradosso che sia proprio la prima sindaca donna delle Capitale a far collassare un progetto ultra trentennale di femminismo e lotta alle discriminazioni e alla violenza di genere”, confessa Brighi. La missiva porta la firma di oltre 40 eurodeputati di Bruxelles tra cui Eleonora Forenza, la democratica Simona Bonafé, Barbara Spinelli, Sergio Cofferati.
Attiviste: “Così ci costringono all’illegalità”. Campidoglio: “Rifiutate le nostre proposte. Azzerare e migliorare il progetto” – Tutto è iniziato nel 2017, con la lettera di sfratto come da “iter d’ufficio” del Comune, poiché il Consorzio “La Casa internazionale delle Donne” che ha in gestione il centro fin dal 1983 ha un debito che è lievitato fino ad arrivare a 900mila euro. Poi manifestazioni, appelli di personalità dello spettacolo e intellettuali e lo stop alla mozione per l’avvio di un tavolo tecnico di dialogo tra Campidoglio e le donne ospitate nel complesso del Buon Pastore. A metà gennaio il consorzio ha presentato una memoria per risolvere la morosità. Si proponeva il pagamento di una parte del debito, e poi a scalare del residuo con delle rate. Si scomputava la manutenzione fatta, si rendeva conto del costo del servizio erogato (quantificato in circa 700mila euro annui) e dell’interesse pubblico della Casa internazionale delle Donne all’interno della quale confluiscono oltre 30 associazioni femministe. Una contabilizzazione vagliata dagli uffici capitolini ma ritenuta “irricevibile” ai fini dell’estinzione del debito. Dal Campidoglio precisano che l’amministrazione “ha presentato al Consorzio una serie di soluzioni fattive e legalmente percorribili, fra cui quella di una garanzia bancaria per il rientro del debito”. Dunque, spostare il passivo dal Comune ad una banca: ipotesi rifiutata dalla realtà autogestita che, ricorda “non ha fini di lucro”, e dove i servizi anche di carattere medico o legale “sono gratuiti”. Così “la concessione è stata revocata d’ufficio” dal Comune. “Con la revoca ci hanno messo in una condizione di illegalità, che è estremamente pericolosa”, sottolinea Brighi. Da Palazzo Senatorio fanno sapere che “non si vuole vendere l’immobile né abbandonare il progetto della Casa delle donne in sé. Si vuole resettare la situazione con un nuovo bando e migliorare il servizio alla luce di ciò che non ha funzionato, anche per rendere il centro autosufficiente” dal punto di vista della gestione economica. Si attende “la proposta di transazione, dopodiché si procederà a restaurare il debito con gli strumenti d’ufficio”. Ed il Consorzio “Casa internazionale delle donne” che finora ha gestito il centro, infatti sta preparando la transazione, ma anche un appello al Tar del Lazio. Un braccio di ferro che continua e adesso è approdato anche in Parlamento europeo.
Ma quello della casa delle donne non è un caso isolato – Altri spazi di autogoverno e autodeterminazione delle donne versano nelle stesse condizioni. “Come tante diverse strutture, siamo morose e sotto sfratto – ha spiegato Alessandra Filabozzi del centro antiviolenza Donna L.I.S.A. nella periferia nord di Roma, della rete nazionale Di.re – perché, essendo autogestite e autofinanziate, non siamo state capaci di pagare interamente l’affitto”, è l’ammissione. “In questi anni, però, abbiamo accolto più di cinquemila donne e costruito una rete con gli altri centri in Italia che ci ha permesso di accogliere 20mila donne, sopperendo a una carenza dello Stato e delle istituzioni”.
Stessa sorte di Lucha y siesta di Roma che è sotto sgombero. Una questione “gravissima” che “riguarda tutti gli spazi delle donne che sono sotto attacco sistematico e non casuale” ha detto Loretta Bondi della Casa Internazionale delle Donne. La lotta portata avanti dagli spazi femministi, infatti, non è solo contro la chiusura dei centri ma anche per un diverso modo di interpretarli. Ed è per questo che il 22 settembre è stata convocata un’assemblea generale con il movimento Non Una di Meno dal tema “Le città femministe esistono e resistono”. “Stiamo vivendo un processo di istituzionalizzazione volta a rendere le case delle donne luoghi di mera erogazione di servizi, controllati dall’autorità politica di turno”. Invece “sono luoghi di solidarietà femminile e femminista, luoghi di autodeterminazione, ricostruzione di vissuti e relazioni, presidi a tutela della dignità, centri antiviolenza”, ricorda Brighi che sottolinea, “qui si fa vera politica delle donne in maniera autonoma dai partiti e dalle organizzazioni”.