Se perde Fayez Al Sarraj, perderà l’Italia. Il premier di Tripoli è stato incensato e tenuto in palmo di mano da Roma, nonostante non fosse in grado di pacificare il Paese. L’Italia ha puntato su di lui almeno fino alla data prevista per le (improbabili) elezioni, a dicembre 2018. Ora però il governo parla anche con Tobruk: il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi è volato a Bengasi per incontrare il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. Nel giorno in cui un commando di uomini armati ha assaltato la sede della National Oil Corporation, l’ente petrolifero nazionale, nel cuore di Tripoli.

La guerra scoppiata il 26 agosto nella capitale libica – il cui debole cessate-il-fuoco è stato prolungato il 9 settembre dopo un incontro tra le milizie e l’Unsmil, la missione Onu in Libia – segna però la nascita di nuove alleanze e nuovi equilibri e mette sempre più in discussione la tenuta dell’esecutivo voluto dalla Nazioni Unite. La fine della stabilità apparente montata ad arte dall’Italia in questi ultimi due anni, anche per trasformare la Libia in un “porto sicuro” e un Paese in grado di gestire in autonomia la questione migranti. “È dalle periferie che è nata questa guerra per contendersi il centro di Tripoli – spiega Jalel Harchaoui, ricercatore all’Università VIII di Parigi, tra i massimi esperti della questione libica – Chi anima lo scontro sono gruppi armati accomunati da due cose: vengono da fuori della capitale e sono stati esclusi dalla spartizione delle casse della Libia. E ora vogliono una parte della torta”.

Lo scontro principale vede la 7a Brigata della città di Tarhuna, le milizie della famiglia al-Kani pressoché sconosciute fino al 2015, contendere il controllo della capitale al Battaglione rivoluzionario di Haitham al-Tajouri, vecchio nemico di al-Serraj, poi “normalizzato” tanto da diventare il referente della polizia di Tripoli. Nel 2017 Haitham al-Tajouri aveva cercato di sfilare il potere dalle mani di Ahmad Maitig, alleato di al-Serraj, in due diversi tentativi di golpe, ai quali l’Italia aveva trovato rimedio con fitte negoziazioni a Roma. Al-Tajouri è parte del cartello para mafioso che ha usato il proprio potere militare per influenzare le decisioni politiche del governo Serraj, dal quale era legittimato, e gestire a proprio piacimento i cordoni della borsa della Banca centrale di Tripoli. Ne fanno parte anche due gruppi che una volta rispondevano al ministero dell’Interno (le forze speciali Rada e la Brigata Nawasi, dell’ex ministro Abd al-Latif Qaddur) e l’Unità Abu Slim dell’Apparato centrale di sicurezza. A maggio del 2017 questo cartello, almeno stando alle apparenze, aveva bonificato il centro di Tripoli, ripulendolo da trafficanti, sequestratori, miliziani filo-Isis, rivoluzionari e salafiti “cattivi”.

“L’ascesa della 7a Brigata non avviene nel vuoto: è stata possibile grazie al supporto di gruppi fedeli a Gheddafi, dei rivoluzionari di Misurata e di altri gruppi esclusi dal potere”, aggiunge Harchaoui. L’approccio naif di Italia e Francia – sostiene il ricercatore – è stato pensare di poter gestire questi dissidi prima dello scoppio di una vera e propria crisi. Non è stato così: l’esclusione del potere è stato un collante per superare vecchi dissapori e coalizzarsi contro il nemico comune Serraj.

I negoziati per il prosieguo della tregua di Tripoli, cominciata il 4 settembre, sono stati discussi dalla missione delle Nazioni Unite Unsmil a Zawiya, una delle città famose per i traffici di esseri umani diretti all’Italia. La scorsa settimana già c’era stato un meeting con i potentati locali in cui l’Onu aveva cercato di placare gli animi: il timore è che il caos di Tripoli possa spostare alleanze anche qui. C’è ad esempio Khalifa al-Gwail, ex presidente del governo golpista di Misurata (National Salvation Government), ha nuove sponde a Zawiya e Zuwara, città che interessano all’Italia perché porto di partenza di molti migranti. Difficile leggere come si sposteranno i trafficanti: i Koshlaf e al-Bija, gli uomini potenti di Zawiya, con cui l’Italia è in contatto, è facile che cerchino nuovi sponsor politici nel gruppo della 7a Brigata.

A Sabratha, il giorno prima dell’inizio degli scontri a Tripoli, su Youtube veniva caricato un video della Katiba al-Wadi, un gruppo salafita da sempre ostile ai Dabbashi, la famiglia con cui l’Italia ha avuto più relazioni in città. Il gruppo di miliziani ha partecipato anche alla guerra dell’estate 2017 con cui i Dabbashi (che hanno favorito milizie vicine all’Isis) sono stati parzialmente sconfitti da Operation Room, una missione per sconfiggere le cellule dello Stato Islamico in Libia. In questo video, miliziani della Katiba al-Wadi bruciano una bandiera italiana su cui campeggia la scritta “no all’interferenza italiana” e si inneggia alla guerra contro i nuovi colonizzatori. “Non l’avrei mai detto cinque anni fa, ma ormai quasi tutte le città della costa a ovest di Tripoli sono in mano a milizie salafite, le più contrarie a Sarraj”, prosegue Harchaoui. Il loro campione a livello nazionale è il generale Khalifa Haftar, che ha dichiarato il 6 settembre ad alcuni leader tribali di essere pronto a marciare su Tripoli e di considerare l’Italia un nemico.

“Non credo che la retorica anti italiana sia davvero importante – continua Harchaoui -. Ai libici non interessa. A loro importa chi darà loro elettricità e aiuti umanitari, ma è probabile che ormai l’Italia, soprattutto a Est della Libia, venga associata allo status quo, mentre la Francia alle elezioni”. Il fatto che resta è che siamo in un punto di non ritorno. Le vecchie alleanze sono sempre più fluide a livello interno. E per l’Italia è difficile contare sugli amici di un tempo, con il pericolo di restare tagliata fuori dai luoghi in cui si disegna la Libia del futuro.

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